"Il World Tour è insostenibile ma si può sognare anche da Professional"
Lunga chiacchierata con Serge Parsani, dg della Corratec, a pochi giorni dal debutto della squadra nel WT: dai trionfi di Bettini al no a Quintana, dalla crisi del movimento italiano alle mancanze della Federciclismo
In un movimento sempre più in difficoltà come quello italiano, senza una squadra nel World Tour e con quelle di livello Professional che faticano sempre di più, c’è chi riesce, almeno in parte, a muoversi controcorrente. È il caso del Team Corratec, fondato sul finire del 2021 grazie alla volontà del main sponsor, produttore tedesco di biciclette, di entrare nel mondo del ciclismo professionistico e al lavoro di Francesco Frassi e di Serge Parsani, per rendere questo desiderio realtà.
I tempi stretti per l’allestimento della squadra, iniziato a ottobre del 2021, hanno obbligato il sodalizio a partire, nella scorsa stagione, dalla categoria Continental, ma lunedì, a nemmeno un anno e mezzo dalla partenza di questo percorso, il Team Corratec farà il proprio esordio assoluto in una corsa World Tour, la Tirreno-Adriatico. «Sarà un bell’esame per tutti, ma partiamo convinti di poter fare bene», ci ha rivelato Serge Parsani, che dopo qualche anno in cui si è dedicato alla “carriera” di nonno, è tornato nel suo mondo, quello del ciclismo, in un ruolo inedito, quello del direttore generale: «Sto alternando il ruolo di manager con quello di direttore sportivo, anche se devo ammettere che i nostri ds, compresa l’ultima arrivata Fabiana Luperini, si stanno comportando bene».
Già alla Vuelta a San Juan vi siete tolti le prime soddisfazioni.
«Su sette tappe, ne abbiamo concluse sei nei primi dieci, con un Attilio Viviani motivatissimo e che sembra rigenerato; sarà lui il nostro velocista quest’anno. Ha fatto bene anche Nicolas Tivani, che ha concluso al dodicesimo posto in classifica generale. Si tratta di un ragazzo non più giovanissimo, ma molto interessante, perché va forte sia in salita che negli sprint: ne sentiremo sicuramente parlare».
Il vostro corridore di riferimento sarà Valerio Conti.
«Uno che ha vestito per una settimana la maglia rosa non ha certo bisogno di presentazioni. È il nostro corridore più “vecchio”, avendo già compiuto 29 anni, e quello con più esperienza a certi livelli. La sua prima corsa doveva essere il Tour of Antalya, ma la tragedia del terremoto lo ha obbligato a posticipare il debutto stagionale al Laigueglia. Dopo la Tirreno, Valerio correrà la Coppi e Bartali, il Sicilia e il Tour of The Alps, in preparazione al Giro d’Italia, che è l’obiettivo massimo».
L’invito al Giro, per una realtà come la vostra, è un’enorme occasione.
«Non avremo velleità di classifica, la nostra realtà non ce lo permette, ma puntiamo a essere protagonisti in alcune tappe. Se poi dovesse arrivare anche una vittoria, sarebbe davvero il massimo; il coronamento di un sogno, per una squadra al primo anno da Professional».
Quando avete capito che avresto compiuto il salto dalla categoria Continental al professionismo?
«Corratec sarebbe voluta partire già lo scorso anno, ma mancavano i tempi tecnici per poterlo fare, anche se, almeno inizialmente, l’UCI ci aveva dato il via libera. Alla fine della passata stagione, invece, abbiamo capito che c’erano tutte le condizioni per esaudire il desiderio del nostro sponsor principale e abbiamo iniziato a lavorare per allestire la squadra. Non essendoci più la squadra di Savio ed essendoci diverse altre formazioni più o meno in difficoltà, lo scorso settembre ci siamo ritrovati con una lista di una cinquantina di corridori in mano. Abbiamo fatto delle scelte, anche imposte dalle nostre possibilità. Ci è dispiaciuto rinunciare a corridori come Pozzovivo, Villella e altri, che erano venuti a bussare alla nostra porta, ma siamo soddisfatti della squadra che abbiamo allestito».
Avete detto no anche a Nairo Quintana.
«Siamo stati contattati, come accaduto ad altre squadre, dal suo procuratore, che stava cercando una realtà che potesse garantire al proprio assistito la prosecuzione della propria carriera nei grandi giri. A noi sarebbe anche piaciuto accontentarlo, ma la sua situazione ha reso tutto difficile: oltre a dover fare i conti con il costo del suo ingaggio, abbiamo dovuto pensare ai problemi che avrebbe potuto crearci con inviti e partecipazione alle gare. Il farmaco per cui gli è stato tolto il sesto posto al Tour de France (il tramadolo, ndr) non è nella lista dei prodotti dopanti, ma è vietato dal MPCC (Movimento per un Ciclismo Credibile), agenzia a cui abbiamo aderito lo scorso dicembre e che sta facendo della lotta a farmaci antidolorifici come questo uno dei propri capisaldi. Non potevamo ingaggiare un corridore che, di fatto, è stato fermato proprio da questa agenzia. A lui sarebbe piaciuto venire da noi, cosa che, visto il valore del corridore, ci riempie di orgoglio, ma per le ragioni di cui sopra c’erano più contro che pro per noi e non siamo andati oltre i primi colloqui».
Cosa pensa del trattamento che è stato riservato al colombiano?
«Se ci sono dei regolamenti, vanno rispettati. Negli ultimi anni, i ciclisti sono stati i più controllati e credo che praticamente tutti, a partire dai più giovani, abbiano capito che il ciclismo doveva voltare pagina. Sul caso specifico c’è però da dire che non si tratta di una positività: l’UCI non ha squalificato Quintana, che infatti potrebbe correre, se solo trovasse una squadra che gli consentisse di farlo. Se non succede è sia perché esiste il MPCC, sia perché in Francia le squadre hanno stretto un accordo per non ingaggiare corridori fermati per l’assuzione di farmaci come questi. Se uno sbaglia è giusto che paghi, ma se un corridore non viene squalificato, se il prodotto in questione entrerà nella lista dei farmaci vietati solo nel 2024, si creano i presupposti per lasciare aperte certe discussioni. L’UCI avrebbe potuto, e forse anche dovuto, dare il via libera al corridore, invece gli ha tolto il sesto posto al Tour, dimostrando di ritenerlo in qualche modo colpevole».
Perché certe situazioni capitano solo nel ciclismo?
«Il ciclismo, rispetto ad altri sport, si fa anche un po’ male da solo. Come dicevo, i ragazzi di oggi hanno capito che era necessario darsi una regolata. Non sarà mai possibile eliminare del tutto il fenomeno del doping, non solo nel ciclismo. È stato anche il nostro sport a volere certe regole, qui cerchiamo tutti di rigar dritto e di fare le cose come si deve, a prescindere da quello che fanno negli altri sport. Chi non lo fa, fa male al ciclismo prima ancora che a se stesso».
Torniamo alla Corratec. Oltre a Conti, Viviani e Tivani, su chi avete puntato?
«Su Alexander Konychev, per esempio. Avendo militato in squadre del World Tour, ha sempre avuto compiti di gregariato, mentre qui avrà possibilità di dimostrare il proprio valore. È partito con il piede giusto, si è integrato bene nella squadra, penso ci darà belle soddisfazioni. Come mi aspetto ce ne diano Gandin, Murgano, Stojnic, Dalla Valle… Abbiamo fatto i passi giusti, i primi risultati della stagione e gli inviti che abbiamo ottenuto sono la dimostrazione che i ragazzi che abbiamo scelto sono quelli giusti».
Avete perso Rajovic, il corridore con cui vi siete tolti la maggior parte delle soddisfazioni nella passata stagione.
«Il passaggio di Rajovic in una squadra World Tour (la Bahrain-Victorious, ndr) ci riempie di orgoglio. La nostra squadra è una grande famiglia, in cui tutti si danno una mano, in cui chiunque deve essere pronto ad aiutare il compagno che in quel momento è più in condizione, senza dover rinunciare alle proprie ambizioni personali».
Tanto più in un contesto come quello attuale, in cui trovare una squadra è sempre più difficile.
«Una squadra di ciclismo non vive di incassi o di diritti tv, ma solo di sponsorizzazioni. Ci sono tanti aspetti da valutare, da analizzare, da programmare, ma l’importante è che alla fine la squadra contribuisca a dare una bella immagine di sé, così da soddisfare gli sponsor, che sono sempre più difficili da trovare».
Soprattutto in Italia.
«In Italia siamo rimasti noi, la Bardiani e la Eolo, che però è più spagnola che italiana. Anche il nostro main sponsor, alla fine, è tedesco. Dispiace vivere una situazione del genere, anche pensando al fatto che l’anno prossimo il Tour de France partirà dall’Italia. Non avendo nemmeno una squadra nel World Tour, corriamo il rischio di non avere nemmeno un corridore italiano di un certo calibro al via di questo appuntamento. È una cosa che fa riflettere, ancor di più guardando i nostri vicini: in Francia hanno quattro squadre nel World Tour, più la Total Energies, che è una professional di alto livello. In Italia lo sport è il calcio, la pubblicità va nel calcio e il ciclismo deve sempre fare i salti mortali per sopravvivere».
Qualche anno fa però non era così.
«Era diverso il contesto ed erano diversi i costi di gestione di una squadra. Allora con un terzo, anche un quinto di quello che spendiamo adesso, avresti potuto allestire una squadra da World Tour. Ora, invece, senza un budget da 15 milioni di euro non si parte nemmeno; e capisco che, per le nostre aziende, certe cifre siano proibitive. Anche il ciclismo femminile, che è un movimento indubbiamente in grande crescita, poggia tantissimo sulle squadre del World Tour maschile già esistenti: di realtà nuove, con sponsor nuovi, nonostante i costi più accessibili rispetto alle squadre maschili, di fatto non se ne vedono».
Soluzioni?
«La Federazione dovrebbe creare una sorta di “unità di crisi”, una realtà che possa saggiare l’eventuale interesse di alcune aziende e, parallelamente, che costruisca le basi tecniche per la costruzione di una squadra di un certo livello. Anche questa volontà, mi spiace constatarlo, mi sembra non ci sia. Servirebbero anche interventi nel ciclismo giovanile, per invogliare i ragazzi a scegliere la bicicletta come sport. In Italia abbiamo solo un vero velodromo, quello di Montichiari, mentre servirebbero strutture che permettessero ai più giovani di allenarsi in tutta sicurezza. La Federazione dovrebbe stimolare le istituzioni locali di alcune grandi città in questo senso ma, purtroppo, da anni non si muove praticamente nulla. Nel frattempo, andiamo avanti “alla vecchia” - scherza Parsani - ed è un vero peccato, perché il ciclismo italiano ne avrebbe davvero bisogno. Ricordiamo sempre che parliamo di un movimento in cui si sono affermati grandi campioni».
Uno degli ultimi, Paolo Bettini, ha potuto vederlo crescere e imporsi da una posizione privilegiata.
«Ho avuto il privilegio di vedere da vicino, sia da corridore che da ds, tantissimi grandi corridori, ma con lui ho vissuto probabilmente i dieci anni più belli della mia attività da tecnico. Nessuno avrebbe mai pensato, anche solo vedendo il suo fisico, che avrebbe potuto raggiungere i risultati che ha raggiunto, e invece ha vinto due Mondiali, un'Olimpiade, classiche. Non sono tanti i corridori che possono dire di aver vinto quello che ha vinto Bettini, come in pochi possono vantare una carriera come quella di Nibali. Entrambi, però, non sono mai riusciti a costruire un’immagine all’altezza del loro palmarès, penso perché non hanno avuto il carisma di corridori come Pantani o Cipollini, che sono stati gli ultimi due veri personaggi del ciclismo italiano».
Fa una certa impressione ripensare a certi nomi, guardando alla situazione attuale.
«Adesso corridori così non ne abbiamo e, quelli che potrebbero fare bene, sono spesso inseriti in contesti in cui non vengono date loro le migliori possibilità per crescere. I giovani, quelli buoni, te li portano via quando hanno 17, 18 anni al massimo. Le grandi squadre hanno costruito un sistema, quello delle squadre Continental satelliti o affiliate, che funziona, basti vedere quanti giovani sono passati quest’anno in prima squadra alla Groupama-FDJ. Noi, invece, abbiamo il vizio di far correre i nostri giovani solo qui in Italia, senza far loro conoscere le altre realtà e senza avere un metro di valutazione per capire se abbiano o meno la possibilità di competere a certi livelli. Costruire una World Tour per recuperare i corridori forti che abbiamo all’estero sarebbe un passo fondamentale per tutto il movimento. Anche per chi, come noi, ha progetti sì ambiziosi, ma non fino a questo punto».