Editoriale

Non ne possiamo più della fortuna sfacciata dei ciclisti

La tragica morte di Gino Mäder è solo l'ultimo caso, e già sappiamo che non sarà l'ultimo. Non è più accettabile che i corridori non indossino protezioni salvavita, e l'UCI deve muoversi al più presto in tal senso

16.06.2023 16:53

Non mi va di fare poesia.

Non c'è niente di poetico in un giovane che muore, in un corpo che rimbalza in un burrone dopo essere stato lanciato a 100 chilometri all'ora, senza quasi protezioni, senza nessuna possibilità di uscirne senza danni che non sia l'appellarsi alla fortuna più sfacciata.

Il ciclismo non può fare affidamento alla fortuna più sfacciata. Che è quella che agisce tutti i giorni, in tutte le sante corse che seguiamo, quando qualcuno cade e per puro caso non si ammazza, o non causa danni seri nei colleghi che inevitabilmente butta giù. Un certo grado di fatalismo è connaturato allo sport del ciclismo, siamo tutti consapevoli che l'incidente è all'ordine del giorno e che le conseguenze possono essere serie, quando non fatali. A volte si cade in discesa, a volte si cade in volata, la velocità spiega tanto ma non tutto, perché a volte si cade anche in mezzo al gruppo, quando la tranquillità dell'andatura lenta si sposa alla distrazione che crea enormi grovigli di uomini e biciclette.

La morte di Gino Mäder ci lascia tutti attoniti e pervasi da un senso di ingiustizia; poteva andargli bene, come a Magnus Sheffield che ha fatto quasi la sua stessa caduta ma che ha avuto fortuna. Gli è andata male, oggi lo piangiamo, era un ragazzo di 26 anni che si era fatto voler bene da tutti in gruppo, che aveva raccolto in carriera qualche soddisfazione (tre vittorie tra cui una tappa al Giro due anni fa, subito doppiata da un successo parziale proprio al Tour de Suisse), ma meno di quelle che avrebbe ancora potuto costruirsi. Era forte, era stato una promessa, ora di lui resta solo il ricordo, che via via scivolerà indietro nei nostri pensieri.

Oggi piangiamo Gino Mäder e speriamo che sia l'ultimo, e invece sappiamo benissimo che non sarà l'ultimo, perché l'avevamo pensato di Bjorg Lambrecht, e prima di Antoine Demoitié, e prima di Wouter Weylandt e di tutti gli altri. L'avevamo sperato, e avevamo inconsciamente fatto affidamento sulla solita fortuna sfacciata dei corridori. Quella che li fa salvare, a eccezione di qualcuno ogni 2, 3, 4 anni. Un pegno da pagare all'inevitabile, all'imponderabile, alla fatalità.

Beh, no. Il ciclismo non può più fare affidamento sulla fortuna. Il ciclismo ha l'obbligo di adottare misure nuove, di perseguire una limitazione del danno, di voltare pagina e noi appassionati da parte nostra abbiamo l'obbligo di sollecitare queste misure, questa svolta di salvezza per tutti.

La discesa dell'Albulapass era velocissima, troppo per non prevedere delle protezioni in alcuni punti sensibili come quello su cui è finita la corsa di Gino Mäder. Delle reti a monte di quello strapiombo avrebbero fatto tutta la differenza del mondo. Forse anche solo delle segnalazioni acconce prima della curva. Ma l'Unione Ciclistica Internazionale deve prescriverle, quelle reti. Non è più tempo di lasciare tutto alla buona volontà dell'organizzatore di turno.

Ma non basta. Lambrecht morì in un punto che nessun organizzatore avrebbe immaginato di dover mettere in sicurezza, una buca di cemento a bordo strada che non era nemmeno detectabile, in un tratto di percorso anonimo del Giro di Polonia. Mettere in assoluta sicurezza un intero percorso non è pensabile, non è possibile. Anche perché lo puoi fare al limite per qualche corsa dei professionisti, ma per tutto il resto del ciclismo? Per i ragazzini? Per gli amatori? Gli amatori che domani affronteranno la discesa dell'Albula non troveranno comunque reti a proteggerli.

Le cose sono tre: o eliminiamo completamente i percorsi con qualche complicazione, quindi di fatto tutti, e allora spostiamo l'intero ciclismo sui rulli, gli diamo giacché anche un altro nome e siamo a posto. Oppure limitiamo pesantemente la velocità che si può raggiungere in bicicletta, dato che in ogni caso abbiamo il sospetto che proprio la velocità sia la principale causa di morte per i corridori.

Oppure facciamo qualcosa in entrambi i sensi, ovvero rendiamo comunque i percorsi più sicuri in ogni caso in cui ciò sia possibile, facendo il massimo, e al contempo troviamo degli accorgimenti tecnici che facciano andare le bici più piano.

Ma è nel terzo ambito che bisogna agire più in profondità. La terza cosa è caricare chi va in bici di maggiori protezioni. Indipendentemente da tutto il resto, sono i ciclisti che bisogna proteggere, salvaguardare, anche dalla propria stessa incoscienza, laddove si manifestasse. Il caschetto non basta più, in realtà non è mai bastato ma oggi forse c'è una maggiore sensibilità nella direzione di airbag mobili che vengano indossati dai corridori. Airbag che si aprono sui punti sensibili del corpo e che salvano vite.

Salvano vite dei professionisti e, nel momento in cui tali applicazioni vengano rese disponibili a tutti, sul commercio, salvano vite anche degli amatori. L'Unione Ciclistica Internazionale ha l'obbligo di non perdere più nemmeno un giorno per portarci in questa direzione.

Oggi al Giro di Svizzera non si è corso. Della sesta tappa è stato fatto solo il tratto finale, ad andatura ridotta, coi compagni di Gino davanti a tutti, in memoria del compagno sventurato. Questa scena che come sempre ci strazia, e che purtroppo presto o tardi rivedremo, ci obbliga a non chiuderla qui, nel cassetto del 16 giugno 2023. Lo dobbiamo al rispetto per Mäder, per quelli come lui che hanno lasciato la vita su una corsa ciclistica, per quelli che non tornano più a casa dopo un'uscita amatoriale. Lo dobbiamo alla logica. Lo dobbiamo all'intelligenza umana, quella che comunque resterà da onorare anche dopo che l'emozione del momento sarà fuggita via.

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Marco Grassi
Giornalista in prova, ciclista mai sbocciato, musicista mancato, comunista disperato. Per il resto, tutto ok!