Più tregua armata che pace tra i duellanti degli anni di piombo
Francesco Moser e Giuseppe Saronni si sono riconciliati dopo l'ultima lite... ripercorriamo una rivalità che coincise con quella che venne definita "la notte della Repubblica"
Il mondo dei nostalgici del ciclismo è stato pervaso da un fremito di commozione nell'ultima settimana a seguito della pace siglata, nell'ultima puntata di Radio Corsa, tra Francesco Moser e Giuseppe Saronni. Grazie alla somma mediazione dell'Omero delle due ruote, Beppe Conti, i duellanti, che hanno alleviato con le loro imprese la notte della Repubblica, regalando agli italiani un filo di luce nelle tenebre, sono arrivati addirittura ad abbracciarsi, giurandosi amicizia eterna in diretta tv. In tempi calamitosi, come quelli attuali, qualunque esternazione positiva di sentimenti va accolta a braccia aperte. Detto ciò, non posso negare che, sulla durata di questa corrispondenza di amorosi sensi, nutro qualche perplessità.
La loro rivalità ha combaciato, sotto il profilo temporale, con la transizione storica più sanguinolenta dei 160 anni della storia dell'Italia unita. Più volte ne ho parlato con loro, sottolineando come a ogni loro grande vittoria facesse riscontro un capitolo drammatico d'una stagione che, per la generazione figlia del boom economico, conserverà sempre un alone di tragicità.
Da saronniano incallito non posso dimenticare due episodi. Il ritrovamento del cadavere di Aldo Moro, martedì 9 maggio 1978, coincise con la prima delle 24 vittorie di tappa di Beppe al Giro, sul traguardo di La Spezia, mentre il trionfo di Goodwood, domenica 5 settembre 1982, ebbe luogo 48 ore dopo il barbaro assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e di sua moglie.
Lo scontro esplose in tutta la sua ferocia il 27 agosto 1978 in occasione del campionato del mondo disputato in Germania sul circuito automobilistico del Nurburgring. Al suono della campana, 14 chilometri dall'arrivo, la corsa sembrava essere una questione a tre. Davanti l'olandese Gerrie Knetemann, il francese Bernard Hinault e Saronni viaggiavano con 45” di vantaggio sul gruppo. Con Francia, Italia e Olanda che tiravano i remi in barca, quale squadra si sarebbe accollata l'onere dell'inseguimento?
A Francesco Moser, chiaramente, questa situazione non poteva andare bene. Il numero uno del ciclismo azzurro non voleva perdere il titolo, ancor meno da un suo connazionale, un impertinente ventenne che stava contrastando la sua fino ad allora indiscussa egemonia. D'improvviso, senza un motivo comprensibile, la squadra belga, repentinamente organizzata dal suo senatore, il trentacinquenne Walter Godefroot, si piazzò in testa al plotone, producendo un forcing che consentì di riprendere i tre fuggitivi.
Sono molti a sostenere che, a incoraggiare i belgi, fosse stato proprio Moser, allettando Godefroot con una solida proposta d'affari. Subito dopo il ricongiungimento il trentino tentò l'assolo. Quel giorno, però, il destino aveva scelto Knetemann. L'occhialuto frisone trovò la forza per partire nuovamente ed agganciare Moser, battendolo poi al fotofinish in volata. Al campione di Palù di Giovo non era riuscito, per un'inezia, il delitto perfetto.
Saronni reagì a questo sopruso con la saggezza d'un ottuagenario, non pronunciando una parola polemica. Contemporaneamente, maturò in lui la convinzione che nel ciclismo, come in molti altri campi della vita, la vendetta è un piatto che va gustato freddo. Sette mesi dopo, venerdì 23 marzo 1979, veniva presentato il 62° Giro d'Italia che si sarebbe corso dal 17 maggio al 6 giugno. A Francesco Moser, reduce da tre beffe successive, subite, in ordine cronologico, da Felice Gimondi e dai fiamminghi Michel Pollentier e Johan De Muynck, fu servita su un piatto d'argento la corsa dei suoi sogni: pochissime montagne e, soprattutto, 136 chilometri a cronometro. “Ci dispiacerebbe molto se Moser non vincesse questo Giro” fu il commento lapidario del ventunenne Beppe al microfono di Adriano De Zan al termine della presentazione.
Venerdì 25 maggio, sulla strada che da Rimini s'inerpicava verso San Marino, ebbe luogo il cambio della guardia. In un sol colpo il corridore di Parabiago conquistò tappa, maglia rosa, Giro d'Italia e, soprattutto, leadership del movimento: uno scettro che avrebbe tenuto ben saldo per quattro anni e mezzo con un crescendo che raggiunse la sua sublimazione nel poker conclusivo (Mondiale, Giro di Lombardia, Milano-Sanremo e Giro d'Italia) senza precedenti, e mai più eguagliato, nella storia del ciclismo italiano.
Iniziò per Moser un periodo difficile. La terza Parigi-Roubaix, nel 1980, e due maglie tricolori, negli anni precedente e successivo all'ultimo exploit sul pavé, furono i suoi successi più eclatanti in questo frangente. Il biennio 1982/'83, tuttavia, sembrò sancire l'inizio del viale del tramonto per l'uomo della Val di Cembra, proprio in coincidenza con lo zenith del rivale. Poi, con uno di quei rovesciamenti che rendono lo sport somma metafora di vita, nell'inverno precedente la stagione 1984, tutto si ribaltò.
Saronni, probabilmente appagato dal poker aureo, cominciò a spegnersi per non riaccendersi mai più, almeno ai massimi livelli, mentre Moser, affidatosi alla scienza ed all'innovazione alimentare, conobbe una seconda giovinezza. A 33 anni Francesco visse la sua stagione migliore, facendo seguire al record dell'ora la conquista di Milano-Sanremo e Giro d'Italia. La buona forma proseguì anche l'anno seguente, pur senza risultati eclatanti.
Il Giro d'Italia 1986, vinto con pieno merito dal bresciano Roberto Visentini davanti ai duellanti, segnò la fine dell'era Moser-Saronni, in coincidenza con il termine della lunga notte della Repubblica. Per il ciclismo azzurro e per l'Italia era giunto il momento di voltare pagina.