Salva i giovani dallo stress e dagli arrivi in salita
Dove sta scritto che una dozzina di finali in quota sia di per sé garanzia di spettacolo? E chi l’ha detto che le crono sono noiose? Forse semmai è il momento di pensionare gli Angliru e gli Zoncolan
Ora che anche la Vuelta, dopo Giro e Tour, ha svelato le sue carte, possiamo dirlo: ci risiamo. Il trend che vede sempre più arrivi in salita e meno cronometro, tappe sempre più brevi e la spasmodica ricerca di rampe e rampette da ribaltamento, viene confermato anche nel 2023. Certo, il Giro quest’anno farà eccezione, riproponendo un percorso più equilibrato sia nel rapporto tra cronoman e scalatori, sia nei chilometraggi e nelle caratteristiche delle tappe di montagna.
Ma non possiamo dimenticare il suicidio commesso non più tardi di un anno fa dalla corsa rosa, quando Vegni vanificò una salita di per sé bellissima come il Fedaia posizionandola nel posto peggiore, e cioè all’arrivo del tappone dolomitico e, per giunta, al penultimo giorno di gara. Con il risultato di anestetizzare non solo quella frazione, ma addirittura l’intera gara dato che i big, al netto della splendida battaglia inscenata a Torino, hanno finito per accantonare ogni seria velleità per tre lunghe e noiose settimane, nell’attesa del redde rationem sulla Marmolada.
Tanto più che – altra colpevole mancanza nel Giro 2022 – non c’era stata nemmeno una cronometro degna di questo nome a sparigliare le carte a metà percorso, con quei pochi chilometri contro il tempo relegati alla seconda tappa (praticamente un prologo) e ad una frazione finale rivelatasi, come ampiamente prevedibile, del tutto irrilevante ai fini dell’assegnazione della maglia rosa.
Un Giro pensato male e dipanatosi peggio, senza per questo nulla togliere al successo di Hindley. Un Giro che potremmo definire figlio del nostro tempo, nel quale un grosso equivoco di fondo aleggia sulle menti degli organizzatori: e cioè che per lo spettacolo servono solo salite, salite, salite, che la cronometro è brutta e noiosa e che le tappe devono essere corte, meglio se cortissime, perché solo così i corridori saranno invogliati ad attaccare prima degli ultimi, fatidici 2-3 chilometri.
La Vuelta, poi, estremizza ulteriormente il concetto, rinunciando in partenza a gettare le basi per il grande spettacolo – la tappa in cui gli uomini di classifica iniziano a darsele a 100 e più chilometri dalla fine, come accaduto allo scorso Tour nel giorno in cui Vingegaard e la Jumbo ribaltarono Pogačar – barattandolo con la garanzia di 10-15 minuti di petardi un giorno sì e l’altro pure, che ottiene tempestando il proprio percorso di insignificanti tappette unipuerto e di urticanti finali su rampe di garage di pochi chilometri e tanta pendenza.
Ma così non si ottiene altro che snaturare l’essenza stessa dei grandi giri, che dovrebbe essere quella di premiare il corridore più completo, cioè quello capace di meglio destreggiarsi tra salite, discese, strappi, ventagli e anche a cronometro, per diamine! E pazienza se poi, quel corridore, non dovesse eccellere in nessun fondamentale. La sua eccellenza, in quel caso, consisterebbe nella completezza, oltre che nel fondo e nel recupero, altre doti che dovrebbero essere ritenute imprescindibili per gli aspiranti maglia rosa, gialla o rossa.
E pensare che, invece, non mancano i suiveur pronti a strapparsi le vesti per il povero Landa o López di turno che, «se non avesse perso un quarto d’ora a cronometro, sarebbe stato lì a giocarsela con i primi, signora mia!». E grazie al cavolo, pure mio nonno, se solo avesse avuto una ruota, sarebbe stato una meravigliosa carriola! Come se le cronometro appartenessero ad un altro sport e come se, poi, i Landa, i López e gli altri scalatori puri fossero davvero più forti, pure in salita, dei Pogačar o dei Froome e dei Dumoulin tempi d’oro.
Ma a parte questo. Anche prescindendo da ogni valutazione tecnica, e limitandoci a quello che poi interessa veramente chi organizza un grande giro – lo spettacolo, bellezza! – dovrebbe essere chiaro a tutti che l’overdose di salite, di per sé, non sarà mai garanzia di successo. Né lo è l’incertezza, intesa come il chiaro intento di tenere la classifica corta il più possibile, se questa incertezza finisce col tradursi nel livellamento e nel controllo reciproco. Una grande gara a tappe dovrebbe essere concepita come un film o un romanzo, dovrebbe cioè avere una sceneggiatura capace di appassionare lo spettatore alternando scene d’azione ad altre più riflessive e, perché no, di confonderlo, facendogli prendere prima una strada e poi un’altra.
E allora ben vengano una o due cronometro serie, toste, anche di 50 o 60 km, e perfino piatte come un biliardo, nelle quali gli specialisti possano rifilare minuti a carrettate agli scalatori. Che a quel punto saranno praticamente obbligati ad attaccare da lontano, senza più niente da perdere, non appena la strada sotto i piedi glielo consentirà.
E torniamo, per fare un esempio concreto, al Fedaia: probabilmente nemmeno Pantani, che era Pantani, sarebbe mai riuscito a ribaltare Zülle se la salita della Marmolada fosse stata l’ultima del Giro anche nel ‘98. Né, d’altra parte, avrebbe avuto bisogno di prodursi in imprese come quella o come il volo con cui, di lì ad un paio di mesi, avrebbe disintegrato Ullrich tra Galibier e Les Deux Alpes, se avesse avuto a disposizione gli odierni percorsi, sbilanciatissimi a favore degli scalatori.
E che quello fosse un altro ciclismo c’entra fino a un certo punto, prova ne è quanto accadde l’anno dopo, in un Giro, quello del ’99, disegnato su misura del Pirata, pieno zeppo di salite e senza grandi prove contro il tempo come ad esempio quella in cui, dodici mesi prima, a Trieste, Marco era stato ripreso e superato da uno Zülle apparentemente padrone della corsa. Al netto di quanto sarebbe poi successo a Madonna di Campiglio, invece, quel Giro ‘99 era stato dominato da Pantani in lungo e in largo, senza alcun pathos. Tanto che, non a caso, ad essere passata alla storia fu solo la sua vittoria ad Oropa: un’impresa nata dall’esigenza di rimontare, dopo l’incidente meccanico che lo aveva appiedato giusto ai piedi della salita al Santuario.
Poi certo, sulla spettacolarità di un grande giro incidono molti altri fattori, primo tra tutti la forza e l’organizzazione delle squadre che sempre più spesso, dalla US Postal di Armstrong fino alla Sky di Froome, hanno saputo tenere chiusa la corsa a doppia mandata. Ma certe dinamiche sfuggono al controllo degli organizzatori che, se potessero, vorrebbero sempre ritrovarsi nella situazione in cui l’uomo più forte è contemporaneamente quello con la squadra più debole, e per questo è costantemente esposto agli attacchi dei rivali, finendo magari col lasciarci le penne (e ogni riferimento al Kruijswijk attaccato da chiunque sull’insignificante Passo della Mendola e poi definitivamente detronizzato da Nibali giù dall’Agnello, nel 2016, è perfettamente voluto).
Ciò che, invece, chi disegna un grande giro può fare, e anzi deve, è apparecchiare la corsa nella maniera più favorevole affinché le cose vadano in un certo modo. Negli ultimi dieci anni questo intento si è spesso tradotto nella tendenza a privilegiare gli arrivi in salita e tappe sempre più corte, nella speranza che quanto visto nei 110 km tra Modane e l’Alpe d’Huez al Tour 2011, o nei 118 tra Sabiñánigo ed Aramón Formigal alla Vuelta del 2016, potesse ripetersi matematicamente ad ogni occasione.
Ma siccome abbiamo potuto toccare con mano che le cose, in realtà, vanno quasi sempre in modo diverso – ahinoi, ben più scontato e prevedibile – allora perché, per una volta, non provare la ricetta opposta? E cioè ZERO arrivi in salita, o perlomeno nessun arrivo in quota in cima a vette più arcigne di un Sestrière o di un’Aprica, con le difficoltà maggiori proposte come penultima o terzultima salita. Mai più l’Angliru, mai più lo Zoncolan e invece dieci, cento, mille Mortiroli! E tornando ad investire nelle cronometro, che magari saranno anche noiose lì per lì, ma nell’economia delle tre settimane possono invece contribuire a gettare le basi per lo spettacolo dei giorni a venire.
E chissà che a guadagnarci, alla fine, non siano proprio loro: gli scalatori puri. Che oggi potranno senz’altro vincere più che in passato, ma difficilmente si ritroveranno nelle condizioni di scrivere imprese capaci di consegnarli alla storia. Quelle imprese che solo i ribaltoni, nati dunque da un’iniziale posizione di grande svantaggio, possono regalare.