Calendari UCI, perché non spalmare una stagione su due anni?
Un po' proposta, un po' provocazione: un rimedio per far stare tutti (strada, pista, fuoristrada) in 365 giorni ciclistici, dando a ciascuno il giusto spazio e la meritata visibilità
La riforma dei calendari per il ciclismo su strada è un argomento che negli ultimi anni ciclicamente rispunta nelle cronache. É recente l’intervento del presidente dell’UCI, David Lappartient, in cui ipotizza un'inversione tra Liegi e Lombardia, un possibile spostamento ad ottobre delle classiche del pavé, con anche il fine di ridurre l’impatto ecologico di tutto il movimento: corse più concentrate territorialmente in alcune settimane della stagione vuol dire meno emissioni di CO2.
A questi propositi possiamo aggiungere altri due obiettivi. Il primo è quello di ridurre le manifestazioni World Tour in contemporanea, scelta ovviamente di buon senso ma che richiederebbe il sacrificio di qualche corsa importante; basti immaginare la difficoltà di collocare due appuntamenti oggi molto seguiti come la Tirreno-Adriatico e la Paris-Nice. Il secondo obiettivo è quello di globalizzare sempre di più il ciclismo come sport, avendo più gare in continenti poco battuti dai migliori corridori al mondo; Lappartient ha accennato al Sud America, io aggiungerei la vera riserva aurea, l’Africa.
Il fatto che da anni si parli di questa riforma, ma che poco o nulla sia cambiato nell’ordine delle corse durante l’anno, ci evidenzia quanto sia difficile trovare la quadratura del cerchio, anche indipendentemente dalla forti pressioni che arrivano dagli organizzatori: RCS Sport, Flanders Classic e, su tutti, ASO.
Riuscirà l’Unione Ciclistica Internazionale nel suo intento? E una volta cambiato l’ordine delle gare nel calendario, questo sarà un bene per tutto il movimento ciclistico?
Ovviamente nessuno ha la risposta in tasca, ma è indubbio che in questi anni chi governa l'UCI, e non solo, è costretto a prendere decisioni importanti che possono far crescere il ciclismo oppure rischiare di ridurlo in futuro a sport di nicchia. Oltre alla difficoltà di mettere d’accordo tutti, è indubbio che ci sia anche la paura di sbagliare riforma.
Provo dalle pagine di questa rubrica a dire la mia, senza alcuna pretesa, ma evidenziando alcuni aspetti che sono emersi in questi ultimi lustri e che pesano nelle decisioni future, e contemporaneamente lanciare una mia idea.
Il primo punto è la multidisciplina. La riforma del calendario del ciclismo su strada non può essere indipendente dalla stagione su pista, ciclocross e mountain bike e, perché no, gravel.
Non solo per il fatto che oggi abbiamo la fortuna di avere corridori come Van der Poel, Van Aert o Pidcock, capaci di regalare spettacolo in strada e fuori strada, oppure Ganna per la pista, ma perché le discipline “corte” possono essere più attrattive per un pubblico più giovane, generano importanti fette di mercato della bicicletta, allargano il potenziale bacino di pubblico e, vista la scarsa sicurezza sulle nostre strade, incoraggerebbero molti bambini ad iniziare a praticare questo sport, partendo da specialità più tecniche, utili per acquisire una migliore abilità nella guida del mezzo, più sicure e forse più divertenti per un giovane appassionato.
Un calendario su strada non può non tenere conto dell’offroad e della pista, la multidisciplina è una risorsa da sfruttare, incoraggiando ancor più i corridori a misurarsi in diversi terreni.
Altro tema sul tavolo è saper aumentare l’interesse per il ciclismo cogliendo il traino della mobilità sostenibile nelle nostre metropoli e paesi, fenomeno che pur tra mille difficoltà e resistenze sta comunque prendendo piede. Non è per niente un passaggio automatico, più trasferimenti su due ruote nelle nostre città non significano più appassionati di ciclismo; è necessario un grande lavoro di immagine, capacità di scegliere luoghi e percorsi delle gare in grado di generare un circolo virtuoso che faccia crescere gli utilizzatori della bicicletta e contemporaneamente i tifosi.
Come vediamo la carne sul fuoco è tanta e rischia di non cuocersi mai. Per quanto ci scervelliamo, lo spazio per far stare dentro tutto non c’è, anche allungando la stagione fino a novembre (purtroppo il riscaldamento climatico ci offre questa possibilità) l’anno è sempre di soli 365 giorni, ancora meno se consideriamo che almeno un mese di pausa è necessario.
L’idea che provo a lanciare è questa: allunghiamo la stagione non di qualche mese ma di un anno.
In altre parole, garantendo solo alle corse più importanti di disputarsi tutti gli anni (Grand Tour, Mondiale e classiche monumento, più altre poche gare davvero imprescindibili, ad esempio Amstel Gold Race, Strade Bianche, Gand-Wevelgem e poco altro), una possibile soluzione potrebbe essere distribuire in due anni il resto delle competizioni.
In questo modo si ridurrebbero le corse in contemporanea, aumentando il valore assoluto di ogni singola gara, e si permetterebbe a molti appuntamenti storici per le due ruote di sopravvivere o rinascere. In Italia sappiamo bene quanto possa essere importante.
I costi sarebbero concentrati nell’anno in cui si corre e risparmiati il successivo, compensando la perdita di visibilità nella stagione off con una startlist di alto livello in quella on, la quale genererebbe maggiore attenzione che una gara di basso profilo annuale: più attenzione, minori costi in cambio di una frequenza biennale e, se si lavora bene, anche più mobilità sostenibile nelle aree interessate dalla manifestazione sportiva.
In questo modo, inoltre, si ridurrebbero in maniera importante i trasferimenti, avendo più competizioni nel territorio interessato in quel periodo e non annualmente; ci si può spingere a correre in nuovi paesi e continenti, preservando allo stesso tempo il patrimonio di corse storiche così importanti in questo sport.
Infine, si creerebbe uno spazio temporale dedicato alle discipline offroad ed alla pista, con poche o nessuna sovrapposizione alle corse su strada.
Avendo più settimane a disposizione durante l’anno, o meglio durante i due anni, non si impedirebbe al singolo corridore di partecipare in maniera più continua alle manifestazioni non “bitumate”- per usare un gergo caro ai bikers- ed alle squadre di aumentare la visibilità del proprio sponsor oltre i canonici confini della strada.
Sbaglierò, ma penso che il ciclismo rischi di non avere futuro se non crede fortemente nella multidisciplina. Magari tutto questo non sarà ancora sufficiente a trovare la quadratura del cerchio, ma “prendere tempo”, nel vero senso della parola, forse può aiutare.