Se neanche Van Aert crede più alla rivalità con Van der Poel…
A Glasgow la pietra tombale su quello che poteva essere il dualismo del secolo: il belga nemmeno ha provato ad anticipare l’olandese, più forte nel finale, e poi si è pure detto contento per l’argento. E allora va’ a quel paese, Wout!
Gli europei su strada, i mondiali di gravel, le elezioni amministrative in Trentino in quota PD: nei giorni successivi alla disfatta di Glasgow, hanno continuato a susseguirsi le speculazioni su quali sarebbero stati gli obiettivi di Wout van Aert per il finale di stagione. E se a proposito della rassegna iridata fuoristrada, in programma sull’altopiano di Asiago domenica 8 ottobre, è stato l’amico ed ex professionista Jan Bakelants a farne trapelare le intenzioni, è lo stesso Van Aert ad aver messo nel mirino anche il campionato continentale previsto un paio di settimane prima, il 24 settembre, in Olanda.
Quanto al concorrere per le elezioni trentine del 22 ottobre in rappresentanza del Partito Democratico, è un consiglio che ci sentiamo di dare noi al fiammingo, vista la sua naturale e perversa attrazione per la sconfitta. Altrimenti non si spiegherebbero né il modo di correre a cui ci ha abituato nelle corse più importanti, né tantomeno le dichiarazioni che, ad ogni ko, lo vedono incassare il colpo con surreale (e inaccettabile) serenità.
Ma partiamo dalla tattica di gara: ancora una volta, anche al mondiale Van Aert ha palesemente corso per arrivare a giocarsi la vittoria in volata. Magari ristretta, ma pur sempre in volata. Come se sul percorso nervosissimo di Glasgow fosse davvero pensabile un arrivo di gruppo, e come se lo storico recente del belga lo accreditasse, in tal caso, di chissà quali possibilità di successo. Quando, invece, in tutto il 2023 l’unico squillo al colpo di reni è arrivato in uno sprint del tutto atipico, a tre, quello in cui ad Harelbeke ha messo in fila l’Innominabile e Pogačar.
Certo, in un percorso, quello iridato, che pareva cucito esattamente sulle spalle dell’Olandese, con tutte quelle curve in cui rilanciare l’azione e tutti quegli strappetti di poche centinaia di metri che ne esaltavano le accelerazioni brucianti, Van Aert correva contro pronostico. Ma limitandosi ai soliti scattini con la testa rivolta all’indietro, buoni solo a setacciare il gruppo e non certo a staccare i rivali diretti, è sembrato voler andare gioiosamente e consapevolmente incontro all’inevitabile. Che, puntualmente, si è consumato nel momento in cui “quell’altro” ha preso cappello e se n’è andato, al penultimo giro: esattamente dove, e quando, tutti si aspettavano.
Perché non provare ad anticipare, dunque, prendendo esempio dalla condotta spregiudicata di Pedersen, o dello stesso Bettiol? Certo, per uno come Van Aert, abituato ad avere addosso gli occhi di tutto il gruppo, andarsene da fagiano sarebbe stato praticamente impossibile, ma in un circuito pressoché privo di rettilinei, in cui l’attaccante scompariva subito alla vista di chi inseguiva – e in cui dunque, per certi versi, la lepre faceva meno fatica del cacciatore – l’unica chance di battere il Mostro era quella di aprire le ostilità il prima possibile, cercando uno scontro in campo aperto sulla lunga distanza tale da esaltare le doti di fondo, un fondamentale in cui il motore del belga è inarrivabile per chiunque.
Anche per la Bestia: che andava dunque attaccata a ripetizione, in prima persona da Van Aert, certo, e anche dagli altri compagni di nazionale (Benoot, Van Hooydonck, lo stesso Evenepoel che in effetti è stato l’unico a sferrare un paio di punzecchiature, e questo gli va riconosciuto), in modo da approfittare della superiorità numerica nell’unico modo possibile in un percorso dove, altrimenti, il supporto delle squadre si è presto rivelato inutile. Se il Belgio avesse provato a stanare il figlio e nipote d’arte con un fuoco di fila di attacchi, chi altri, se non il capitano degli orange, sarebbe dovuto andare a chiudere, ritrovandosi magari con le polveri bagnate in un finale che, invece, lo ha poi visto dominatore inesorabile?
E come se non fosse bastata l’interpretazione della gara, a gettare definitivamente nello sconforto tutti i sostenitori del Vanaertismo sparsi per il mondo sono state le parole del Nostro al termine della corsa: «Posso dire di essere soddisfatto» (prima coltellata ai nostri fianchi); «Ho l’impressione che oggi abbiamo corso nel modo giusto, c’è stato solo qualcuno più forte» (seconda coltellata, questa volta al costato); «Quando Mathieu ha attaccato abbiamo corso per il secondo posto, è stato abbastanza naturale. Volevo l'argento, così ho attaccato in salita e ho mantenuto il vantaggio in discesa, assicurandomi un buon secondo posto» (terza e definitiva scarica di coltellate, letale, perché indirizzata direttamente al cuore).
Allora. Facciamo tutti un bel respiro profondo. E rianalizziamo quanto appena letto: alla fine della fiera, Wout van Aert è soddisfatto del risultato, ammette pacificamente di avere corso per il secondo posto (dal momento dello scatto del suo principale avversario, dice lui; o forse fin dal primo chilometro di gara, azzardiamo malignamente noi), non si rimprovera nulla e, con serenità olimpica, ammette che ad avere vinto è stato il più forte.
“Applausi, chapeau, che sportività!”, diranno in molti… Ma neanche per idea! Stiamo parlando della corsa più importante dell’anno, l’unica che potesse ancora salvare una stagione altrimenti fallimentare, proprio perché contrassegnata da un’incredibile serie di sconfitte negli scontri diretti e negli appuntamenti clou, dalla Sanremo alla Roubaix. Di più: il mondiale di Glasgow era probabilmente l’ultima chiamata a disposizione di Van Aert per riequilibrare il confronto con il Nemico nella prospettiva dell’intera carriera.
E nonostante tutto questo, di fronte all’ennesimo ko, lui si dichiara “soddisfatto”?!?!? E davvero, una volta capito di aver perso la partita (perché ad un certo punto, nell’ultimo giro, ci si doveva effettivamente arrendere all’evidenza), si è comunque appassionato all’idea di aggiungere un altro secondo posto alla collezione? Ma che gli frega a Wout van Aert di un’altra medaglia d’argento?!? Meglio avrebbe fatto a tagliare il traguardo rialzato, come Remco, a una decina di minuti. E magari a tirare pure dritto davanti ai giornalisti.
Ma alla fine, se davvero dobbiamo credere alle parole del belga, la spiegazione forse è molto semplice: la rivalità tra Van Aert e Van der Poel (ecco, l’ho nominato, alla fine, l’Innominabile!) non è mai esistita se non nella testa dei tifosi, e non certo in quella di Wout. Che evidentemente – se, ripeto, dobbiamo davvero credere alle sue parole – non legge la propria carriera in relazione a quella dell’altro. E per carità, contento lui, contenti tutti!
Se le cose stanno così, stiamo parlando di una persona senz’altro più matura di quella che sta scrivendo. Ma allora, sinceramente, passa la voglia di appassionarsi a questo dualismo asimmetrico, prima ancora che sul piano dei risultati, su quello della personalità. E rimane il rimpianto per quello che sarebbe potuto essere e che, evidentemente, non è stato, o quantomeno non è più: un Van Aert che ad ogni corsa provasse a reinventarsi, a sorprendere e a sorprenderci, nel tentativo di battere Mathieu. E che, invece, appare sempre più prigioniero di schemi tattici ripetitivi e di dichiarazioni da “volemose bene” che ne fanno sì un campione del mondo: ma di mungitura di latte dalle ginocchia.