Tadej Pogacar impegnato nella crono di Nizza © Tour de France
L'Artiglio di Gaviglio

Della credibilità di Tadej Pogačar e di questa società

Se anziché di lotta al doping iniziassimo a ragionare in termini di medicina sportiva, forse capiremmo che la vera disparità è quella alla base del nostro mondo, e non solo dello sport: e allora no all’Inquisizione, sì alla Rivoluzione!

28.07.2024 09:30

Una volta c'era la bomba, qualunque cosa volesse dire e qualunque cosa ci fosse dentro. Poi vennero le amfetamine, l’epo, le autoemotrasfusioni, il cera, le tende ipobariche, i chetoni e così via, accorgimenti sempre più fantascientifici per il motore di domani. Quest’estate, ad esempio, sembra andare alla grande il monossido di carbonio, da abbinare preferibilmente a un costume crochet giallo limone, perché non c'è niente di più cool che fare rebreathing mangiando un mezzo panino sotto il sole, sotto il sole, di Riccione, di Riccione.

Ciò che non passa mai di moda, insomma, è tirare in ballo il doping: vero tormentone dell’estate soprattutto a luglio, quando c'è il Tour de France. E tacciare inevitabilmente di drogato il vincitore di turno, «perché certi numeri non si sono mai visti, signora mia!» - e pazienza se ce lo diciamo tutti gli anni (il che, già di per sé, sarebbe una contraddizione in termini mica da ridere). Figuriamoci, poi, se chi ha appena vinto il Tour si era già imposto, a maggio, anche al Giro d'Italia, vincendo sei tappe di qua e altrettante di là e seminando, con distacchi abissali, avversari completamente diversi. Il tutto, con una facilità e leggerezza da sembrare quasi di non aver faticato.

Il sospetto a tutti i costi

Un momento del Tour de France 2024 © Tour de France
Un momento del Tour de France 2024 © Tour de France

Davanti a prove così schiaccianti, dunque, la sentenza al Tribunale del Buon Senso è già emessa: «Quello lì, deve essere per forza dopato!». Resta solo da trovare l'arma del delitto, ed ecco appunto scattare la ricerca della pratica dopante all'ultimo grido, in un profluvio di sospetti che vanno dalla semplice diceria alla dissertazione più articolata. All'insegna di un complottismo via via più spinto e di un «noncielodicono, ma lo so io, lo so! e adesso ve lo spiego» che francamente, a 26 anni dal caso Festina, ci avrebbe anche sfranto gli zebedei. E cito la Festina non a caso, perché proprio quello scandalo esploso alla Grande Boucle del 1998 cambiò, di punto in bianco, il racconto che i media avrebbero fatto del fenomeno, condizionandone, a cascata, la percezione nel grande pubblico.

Da elemento sostanzialmente connaturato alla pratica sportiva e dunque accettato – basti pensare alla facilità, anche mediatica, con cui Eddy Merckx rientrò in gruppo dopo la celeberrima positività di Savona che gli era costata la cacciata in maglia rosa dal Giro ’69, demolendo poi tutti quanti al successivo Tour de France come se nulla fosse successo – ecco che l’aiutino diventava tutto ad un tratto fatto deplorevole, turpe, vergognoso. E, di lì a poco, addirittura criminale nel vero senso della parola, data l'istituzione del reato di doping, introdotto nel 2000 nell'ordinamento italiano e, più o meno contemporaneamente, un po' in tutti i paesi occidentali. Il doping, dunque, come male assoluto contro cui lottare, dando la caccia alle mele marce per restituire allo sport la sua presunta pulizia originaria.

Niente di più mistificatorio della realtà: io non sono un medico, né un tecnico, per cui non entro nel merito delle accuse mosse negli anni a Tizio o a Caio, ma il punto è che nemmeno mi interessa farlo. Perché la pretesa di avere corridori (o qualsiasi altra tipologia di atleta) a pane e acqua è assurda e ipocrita, e ciò che conta è la credibilità dello spettacolo a cui assistiamo. E Tadej Pogačar – perché sì, naturalmente è di lui che stiamo parlando – non è certo un Bernhard Köhl, un Floyd Landis o un Juan José Cobo, per citare giusto alcune delle meteore abbattutesi sul ciclismo di inizio millennio, e la sua doppietta Giro-Tour arriva a coronamento di una parabola sportiva straordinaria, sì, ma cementatasi a suon di risultati anno dopo anno.

Se abbiamo dei dubbi su questo o quel ciclista, insomma, teniamoceli perlomeno fino a quando avrà smesso di correre, in modo da poterne analizzare la carriera in prospettiva. E nel frattempo, smettiamola di pensare male davanti ad ogni prestazione apparentemente fuori dal comune e, piuttosto, godiamocela, così come ci siamo goduti il 9”58 di Bolt sui cento metri o i record del mondo di nuoto che continuano a cadere a ripetizione, compresi quelli fatti segnare una quindicina d’anni fa nell’epoca dei costumoni poi messi al bando e che, allora, si riteneva sarebbero rimasti imbattuti per decenni.

A che serve la caccia ai fantasmi?

Smettiamola di dare la caccia ai fantasmi, insomma, e diciamoci chiaramente che tra gli elementi che, da sempre, concorrono al miglioramento delle prestazioni in ogni disciplina, oltre alla continua ricerca sui materiali e al perfezionamento delle tecniche di allenamento, c'è anche la medicina sportiva. Che sarebbe riduttivo chiamare doping a prescindere, dando per scontata la malafede di chi ne usufruisce: è del tutto legittimo, infatti, che gli sportivi di vertice si facciano assistere dai migliori professionisti in ogni ambito compreso, naturalmente, quello medico, e che dai propri consulenti pretendano le soluzioni più efficaci e all’avanguardia.

È, appunto, il principio della ricerca che, per definizione, arriva a spingersi al limite dei regolamenti, a sfruttarne le zone grigie e le diverse interpretazioni cercando però, sempre, di restare all'interno dei paletti dati: pensiamo alle schiere di ingegneri arruolati in Formula Uno e chiamati a disegnare l'auto più veloce nel rispetto dei parametri imposti ad ogni stagione dalla FIA, magari anche radicalmente diversi da un anno con l’altro, a ulteriore conferma di quanto sia scorretto assolutizzare i concetti di giusto e sbagliato. Oppure pensate che alla Williams, l'ultima auto della griglia, lavorino con un approccio diverso rispetto alla Red Bull? E allo stesso modo, tornando al ciclismo, credete che soltanto la UAE di Pogačar o la Visma di Vingegaard battano certe strade, mentre alla Corratec o alla Caja Rural vadano ancora avanti a banane e panini imbottiti?

A cambiare, se mai, sono le disponibilità economiche e quindi le potenzialità di investimento che ne derivano, ma questo è un problema di distribuzione inefficace delle risorse che attiene a tutta la nostra società, sempre più diseguale, non certo una disfunzione specifica del ciclismo. Anzi lo sport, in generale, non è che uno dei tantissimi campi in cui questa disparità sociale si manifesta.

E se non altro, proprio nello sport molto più che in altri ambiti, a contenere il divario entro limiti accettabili ci pensa la meritocrazia più vera, perché essere i corridori di vertice che beneficiano dei programmi di ricerca dei team più munifici è un privilegio che si conquista e si è chiamati a confermare, ogni stagione, sul campo: Pogačar e Vingegaard non sono lì perché qualcuno li ha raccomandati, ma in ragione di un indiscutibile talento di base che giustifica il budget messo a disposizione dagli sponsor per costruire attorno a loro una squadra composta dai migliori gregari, dotata dei materiali più performanti e, appunto, sorretta dagli ultimi ritrovati nel campo della preparazione atletica e della ricerca medico-scientifica.

Smettiamola, allora, di muovere accuse sgangherate contro i singoli corridori che sulla base del nostro (tutto fuorché insindacabile) giudizio reputiamo essere dopati. E se proprio ci teniamo ad ergerci a moralizzatori di ‘sta cippa, puntiamo piuttosto il nostro dito accusatore contro un sistema, quello sì, ingiusto e foriero di disuguaglianze, un sistema peraltro ben più grande dell’orticello del ciclismo in cui tanto ci agitiamo. Perché quello di cui c’è bisogno non è certo una nuova Inquisizione che metta al rogo una manciata di streghe per difendere lo status quo ma, se mai, una nuova Rivoluzione che porti ad una redistribuzione più equa della ricchezza. Per chi ci crede.

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