Lo sportivo è un sacerdote: per questo lo si giudica con moralismo
Una risposta all'ultimo Artiglio di Gaviglio, proseguendo il dibattito su quel che rappresentano oggi i campioni dello sport nella nostra società
Nell’ultimo Artiglio, Marco Gaviglio affronta un tema importante e spinoso, la diversa morale a cui spesso sono sottoposti gli sportivi, l’affidare a loro un ruolo educativo e di esempio per i giovani. Giustamente il nostro editorialista genovese sottolinea la grande ipocrisia che spesso accompagna certe condanne mediatiche, gli ostracismi sportivi conseguenti e, purtroppo, talora anche le tragiche conseguenze sulla vita stessa delle persone e delle loro famiglie.
Oltre a condividere la tesi di fondo dell’articolo, apprezzo soprattutto il coraggio di andare a graffiare lì dove la ferita ancora brucia, rischiando di attirarsi più critiche che condivisioni. Perché questo accade? Perché lo sportivo ha assunto questo ruolo di modello nella nostra società? Il filosofo Robert Redeker, nel suo libro Lo sport contro l’uomo (Città aperta 2002), ci fornisce una risposta.
Secondo il professore francese, lo sport ha preso il posto della chiesa e dello stato (Leviatano fiat) nel processo di antropomodellismo del capitalismo; un modello più uniforme, più monotono. Lo sport di élite ha il duplice ruolo di matrice e di ideale regolatore: nuovo potere spirituale, nel senso di religione che plasma gli uomini, una nuova chiesa universale, in questo senso cattolica. Secondo Redeker, la cattolicità del vuoto in cui nella chiesa dello sport si celebra un messaggio di culto dei marchi pubblicitari e della legge del più forte (culto dell’uomo licantropo).
A questo punto le grandi manifestazioni sportive sono come grandi rituali liturgici dove i campioni rappresentano i sacerdoti. Si può condividere o meno la tesi di Redeker, ma possiamo osservare che la violenza moralista nei confronti degli sportivi è molto simile a quella che osserviamo verso i religiosi.
Se questo accade, è perché riconosciamo in queste figure, atleti e ministri del culto, un valore ed un significato che supera quello contingente del soggetto stesso. Per natura del fenomeno religioso è forse normale che accada: il ruolo sacerdotale, la sua posizione di intermediario con un divino pongono quella persona in un crocevia simbolico, che difficilmente può eludere un giudizio morale della comunità.
E lo sportivo? Quale significato gli viene affidato? È davvero l’atleta consapevole del suo ruolo? Molto difficile rispondere.
Più volte in questa rubrica mi sono fermato a sottolineare come l’atleta sia un corpo al limite, artefatto (il doping assume tutt’altra luce in questa prospettiva), un modello di una cultura che mira al superuomo, efficiente, produttivo, un “immortale” che supera i confini della natura stessa per dominarla.
Se a questo processo simbolico, al limite dell’eugenetica, aggiungiamo anche il compito di vendere beni di consumo oppure essere un mezzo di propaganda politica e sociale, capiamo bene che anche l’atleta diventa crocevia di linee simboliche, e, come accade con ogni sacerdote, il suo corpo e la sua vita sono terreni fertili per la morale comune.
La fortuna dello sportivo, a differenza del prete della parrocchia, è che talvolta questo suo compito è ben remunerato. Ma si può comprare la morale di un uomo? Ci domandiamo mai chi siamo noi per ergerci a giudici di questo tribunale?
La via di uscita da questo impiccio è cambiare il significato simbolico dello sport e dello sportivo, sottolineando la fragilità umana di ognuno, anche morale, avere la salute come linea guida, il benessere psicofisico di tutti come primo obiettivo. Come in ogni espressione culturale, siamo noi a dare un contenuto piuttosto che un altro, e siamo sempre tutti noi i responsabili di questo mediatico tribunale morale, anche quando non ne condividiamo la sentenza.
È necessario che si cambi lo sguardo verso l’atleta e ritornare ad essere cittadini che pretendono una giustizia equa e che funzioni, dove, se ci sono reati, non ci sia indulgenza né accanimento se l’imputato è un personaggio noto.
Sappiamo tutti che i più giovani non hanno bisogno di sportivi come modelli, ma una società dove lo Stato funzioni, gli insegnanti insegnino, i medici curino e, ancor più, i genitori autorevoli (non autoritari) educhino; ad ognuno il suo ruolo, per i processi ci sono avvocati e giudici. Le garrote di piazza lasciamole al passato.