Un duello francese di un giallo abbagliante
Jonas Vingegaard e Tadej Pogacar hanno attirato su di loro tutte le attenzioni della 110° edizione del Tour de France che ha però regalato tanti altri spunti di dibattito ed emozioni profonde
Il copione si replica, con i dovuti adattamenti, ormai dal 2020. Il duello tra Tadej Pogacar e la Jumbo-Visma monopolizza le attenzioni del Tour de France da quattro anni interi e se nel 2020 e nel 2021 fu lo sloveno ad uscirne come vincitore, da due edizioni a questa parte è la squadra di Veghel a fare la voce grossa con il nuovo capitano del team: Jonas Vingegaard. Il danese approcciò la corsa francese come gregario di Primoz Roglic nel 2021, ma con il ritiro dello sloveno ebbe l'opportunità di testarsi come leader della compagine giallonera che gli diede grande fiducia dopo gli strabilianti risultati primaverili (nel Giro dei Paesi Baschi ad esempio fece secondo alle spalle di Roglic ma davanti a Pogacar, approfittando del perfetto gioco di squadra che l'anno successivo gli sarebbe valso la prima Grande Boucle).
Il duello tra Pogacar e Vingegaard, ormai divenuto il fulcro non solo del Tour, bensì di tutto il ciclismo mondiale, al pari dell'altrettanta leggendaria rivalità tra Mathieu van der Poel e Wout van Aert, nacque proprio in quel 2021 su una delle salite mitiche della gara: il Mont Ventoux. Jonas staccò Tadej, il quale poi rientrò in discesa e battezzò lui e Richard Carapaz nelle salite pirenaiche dell'ultima settimana. Da allora sono state pochissime le volte in cui i due sono stati separati in un ordine d'arrivo da più di un minuto: l'anno scorso sul Granon e poi a Hautacam, quest'anno nella tappa del Marie Blanque, nella cronometro nelle zone di Sallanches e il giorno successivo sul Col de la Loze.
In comune a queste cinque frazioni un elemento: il fatto che sia stato Vingegaard a staccare l'avversario e non viceversa. Dati così eclatanti sono molto chiari e ci parlano di una sfida apparentemente a senso unico. Se è sempre uno dei due a staccare l'altro, mentre il secondo si limita a limitare i danni e nelle migliori giornate ad infliggere distacchi meno cospicui, il duello viene un po' a mancare e risulta quasi scontato, alla lunga. Eppure, quando nel 2024 Vingegaard e Pogacar si presenteranno alla partenza del Tour a Firenze, i pronostici saranno ancora equilibrati. Non perché si voglia ignorare una realtà amara per tanti, dato che il pubblico è in maggioranza schierato dalla parte del fenomeno sloveno, quanto perché ci sono degli elementi che se ignorati porterebbero alla conclusione sbagliata, cioè che Vingegaard non sia battibile.
Non possiamo dimenticarci, infatti, che il 23 aprile 2023, a poco più di due mesi dalla partenza di Bilbao, Tadej si ruppe il polso durante la Liegi-Bastogne-Liegi, quand'era a tanto così dal compiere un'impresa clamorosa: non solo la tripletta delle Ardenne, ma anche il Giro delle Fiandre. E invece quel giorno, che per lui poteva avere un risvolto storicamente non replicabile, lo condannò a una preparazione mozzata, che, per stessa ammissione del suo allenatore, non gli ha permesso di presentarsi nei Paesi Baschi con la condizione necessaria per tenere i folli ritmi della Grande Boucle per tre settimane consecutive.
Non un caso infatti che la Jumbo, squadra che quando ha il tempo di programmare le proprie tattiche difficilmente mette il piede in fallo, ha tentato di metterlo all'angolo sin dalla prima settimana. In realtà è stata la stessa UAE ad aprire le danze nelle due frazioni basche inaugurali, con Adam Yates a prendere la maglia gialla il primo giorno battendo il gemello Simon. Per loro, come si suol dire in questi frangenti, chi ben comincia è già a metà dell'opera: Adam finirà terzo a Parigi, Simon quarto; entrambi al miglior risultato della loro carriera sulle strade della gara francese. Anche in quest'occasione, però, sul Col de Pike, Jonas e Tadej erano rimasti soli davanti, giusto in compagnia di un Victor Lafay d'eccezione nella due giorni basca e, se il danese avesse voluto, sarebbero arrivati in coppia la domenica sul traguardo di San Sebastian.
Vingegaard tuttavia ha preferito mettere la sfida su un piano a lui più favorevole, puntando tutto sulle grandi salite. Il giorno successivo alla botta pesantissima inflitta a Pogacar sul Marie Blanque lui e la squadra hanno voluto esagerare, cercando di chiudere il Tour de France già sul Tourmalet. La tattica di mandare Van Aert in fuga per poi ampliare il margine di Vingegaard sugli inseguitori nella vallata prima di Cauterets Cambasque sembrava particolarmente azzeccata, ma non teneva in conto un fattore: la classe di Pogacar. Allo sloveno è bastata una notte per ricaricare le batterie dopo la batosta della quinta tappa e approfittando dell'eccessiva confidenza della Jumbo ha riaperto un Tour che altrimenti si sarebbe chiuso dopo nemmeno una settimana.
Da allora è ricominciato da zero il duello che ha prosciugato le forze di tutto il gruppo. Sì, perché anche se non direttamente coinvolti, gli altri 174 partecipanti (meno i vari ritirati che si sono sommati giorno dopo giorni alla lista di coloro i quali non sono arrivati a Parigi questa sera) hanno dovuto adattarsi ai ritmi di questi due marziani e delle rispettive squadre, in particolare una Jumbo scatenata che ha cercato di spostare la contesa su un terreno più adatto alle caratteristiche di Vingegaard, spingendo al massimo in ogni tappa di montagna. L'obiettivo dichiarato era bagnare le polveri ad un Pogacar che di sola esplosività era riuscito a distanziare il rivale sia sul Puy de Dôme che sul Grand Colombier. Il risultato di tutto questo sono state tre settimane al cardiopalma, con un Tour che dopo anni non particolarmente divertenti nel decennio scorso si sta rifacendo con gli interessi in quest'inizio di anni '20.
Col senno di poi, mai decisione fu più azzeccata e soprattutto attuata meglio di questa: Joux Plane e Le Bettex hanno prodotto un pareggio che sapeva più di leggero successo del danese, la cronometro e il Col de la Loze hanno indiscutibilmente dato ragione agli olandesi, capaci di svuotare il serbatoio di un Pogacar straordinario, proprio perché giunto al via di Bilbao in condizioni tutt'altro che ideali. Ma il carattere, il carattere di Tadej, che carattere Tadej! Una cattiveria agonistica rarissima unità ad una serenità d'animo che incanta e che gli consente di viversela bene nonostante una sconfitta, proprio perché in fondo è solo una piccola sconfitta nell'ambito di una carriera e soprattutto di una vita in cui le vere sofferenze sono ben altre rispetto ad una Boucle persa in questo modo.
Fino alla fine, alla ventesima frazione, i due hanno attirato su di loro le luci gialle del Tour, luci accecanti tanto quanto il talento di Vingegaard e Pogacar. Ma la più grande corsa di ciclismo al mondo non è stata solo Vingegaard e Pogacar. È stata anche tanto altro. Cominciando dalla già citata favola della Cofidis e di Lafay, squadra tornata alla vittoria dopo quindici anni di digiuno in cui ha comunque trovato la forza di andare avanti e l'ambizione di prendersi tante rivincite. Ad esempio quella di Ion Izagirre, che in sé non porta solo la soddisfazione della compagine francese, ma anche quella di una nazione storica del ciclismo, la Spagna, rimasta a secco un lustro al Tour, e che quest'anno ha rimpinguato il proprio bottino con i successi del basco, ma anche quelli di Pello Bilbao e del giovane Carlos Rodríguez, rampante grimpeur di cui negli anni futuri sentiremo ancora parlare a lungo.
E poi l'Italia, altra nazione che nel passato della bicicletta ha avuto un peso giusto giusto considerevole, che si è presentata al via con solamente sette elementi, uno dei quali, Jacopo Guarnieri, subito ritiratosi per una caduta. Il faro è stato senz'altro Giulio Ciccone, secondo nella quinta tappa vinta da Jai Hindley - l'australiano ci ha regalato una variazione rispetto al classico atteggiamento degli outsider, inventandosi un'azione che per un paio d'ore ci ha riportati indietro ai tempi delle fughe bidone - e poi protagonista su ogni colle importante del Tour, realizzando il sogno di conquistare la maglia a pois. Gli altri azzurri hanno trovato comunque il modo di mettersi in mostra, chi nelle volate, come Luca Mozzato, chi al servizio di un grande capitano, Matteo Trentin, chi ancora un po' per se stessi e un po' per la squadra, Alberto Bettiol e Daniel Oss, chi per un velocista che ha sfiorato la Storia per poi abbandonare brutalmente la Grande Boucle, Gianni Moscon.
A proposito di sprinter, l'attesa contesa tra Fabio Jakobsen, Dylan Groenewegen, Caleb Ewan e Jasper Philipsen non vi è stata. Troppo più forte, troppo più resistente degli altri il belga della Alpecin-Deceuninck, il quale, oltre a far discutere per alcune sue mosse un po' al limite, ha anche avuto il lusso di essere guidato da un pesce pilota del calibro di Mathieu van der Poel. Il campione del cross ha corso con il pensiero fisso del Mondiale, cercando solamente in un paio d'occasioni fortuna personale, a differenza della sua nemesi Wout van Aert, la cui attitudine non è orientata ai calcoli nelle corse di tre settimane, ma piuttosto al completo sacrificio in funzione della squadra e della vittoria di tappa, che però è fatalmente mancata nonostante le gambe sorreggessero le sue ambizioni.
Un avversario che entrambi dovranno fronteggiare al Mondiale di Glasgow è un'intera nazionale: la Danimarca. Spauracchio da Harrogate in avanti, quest'anno si presenterà in Scozia con una formazione a più punte che può potenzialmente spuntarla in ogni scenario. Kasper Asgreen e soprattutto Mads Pedersen rappresentano i due corridori più accreditati, ma vi sono tanti altri biancorossi che approfittando del numero e della presenza di danesi alle proprie spalle possono centrare il bersaglio grosso.
Questo resterà in ogni modo il Tour de France di Gino Mäder; non solo perché Matej Mohoric l'ha ricordato nell'emozionante intervista rilasciata dopo il successo nella diciannovesima frazione, ma anche perché il pensiero dello svizzero ha albergato nelle menti di tutti i ciclisti, di tutti gli addetti ai lavori e di tutti gli appassionati per i ventuno giorni del Tour e vi resterà per sempre. I brividi che ognuno di noi ha provato vedendo le immagini dei corridori a terra, soprattutto in discesa, per la paura che la tragedia si potesse replicare dovrebbero far riflettere ciascuno sulla necessità di aumentare le misure di sicurezza per tutelare l'incolumità dei corridori, soprattutto nelle ore in cui dall'Austria ci è giunta un'altra notizia agghiacciante.
E anche per questo sono inaccettabili le scene a cui più volte si è assistito delle motociclette che hanno sia influenzato l'esito della corsa che messo in pericolo i ciclisti. Come nel caso di Krists Neilands, uno dei numerosi combattivi di questo Tour insieme al premiato Victor Campenaerts e a Julian Alaphilippe, tanto grintoso quanto lontano dagli anni d'oro. Il lettone è finito su un muretto in seguito ad un contatto con una moto che gli stava passando una borraccia. Il motociclista, pur avendo intenzioni totalmente genuine, non ha avuto la capacità di comprendere come quello non fosse il momento più opportuno per intervenire.
La Grande Boucle 2023 è stata senza ombra di dubbio una gara spettacolare che ha fatto esaltare milioni di persone nel mondo (le immagini di ieri della folla in visibilio per il passaggio di Thibaut Pinot sul Petit Ballon resteranno a lungo impresse nella memoria), ma i problemi appena citati non possono essere ignorati né da ASO né da un sindacato dei corridori che sembra sempre sciogliersi di fronte al colosso francese. Eppure, se davvero non si vogliono più vedere le immagini delle troppe moto costantemente in mezzo alla corsa, che nel migliore dei casi rallentano Pogacar e nel peggiore investono Antoine Demoitié, è proprio dall'alto, e cioè dal Tour de France, che bisogna intervenire per dare l'esempio e rappresentare un riferimento mirabile.