Speriamo che anche a Pogačar salti la catena ad Oropa!
Un imprevisto sembra l'unica variabile in grado di rendere incerto questo Giro, così come nel '99 l'unico brivido per Pantani (prima di Campiglio) fu l'inconveniente ai piedi della salita al Santuario. A meno che Tadej non voglia esagerare…
Parliamoci chiaro: tutti vogliamo bene a Tadej Pogačar e ci auguriamo che sia lui a vincere il Giro d’Italia 2024, non fosse altro che per vedergli poi dare l’assalto ad una storica doppietta, in luglio, sulle strade di Francia. Dall’altra parte, però, abbiamo paura che il biondino di Komenda possa ammazzare la corsa rosa nella culla, data la sua forza incommensurabile a cui non pare corrispondere, purtroppo, un antagonista degno di tal nome in tutta la startlist.
E l’unico scenario plausibile per cui Pogi non riesca ad alzare il Trofeo senza fine il 26 maggio a Roma pare essere quello di una qualche sfiga che lo mandi ko, sia essa una caduta o un malanno. Il che, naturalmente, è l’ultima cosa che vogliamo, anche perché il buon Mauro Vegni, questa volta, potrebbe non essere in grado di superarla.
E allora come fare a tenere insieme la felicità per avere al via del Giro il più forte corridore del millennio all’apice della propria carriera, con il rischio di assistere ad un suo monologo in 21 atti? L’unica soluzione che ci viene in mente è di augurarci che gli capiti qualche imprevisto nei primi giorni, tale da costringerlo ad una corsa a handicap: non un infortunio, per carità, ma magari un ventaglio, o anche un cagotto che non ne pregiudichi la salute nel lungo periodo, ma gli costi comunque qualche minuto da dover poi recuperare nel prosieguo della corsa.
Un qualcosa, insomma, che spalmi nell’economia nelle tre settimane quanto al Giro del 1999 vedemmo concentrato in un’unica tappa: proprio quella di Oropa che i girini affronteranno già domenica, e che quell’anno vide Marco Pantani costretto, a causa del celeberrimo salto di catena ai piedi dell’arrampica al Santuario, a prodursi in una rimonta rimasta impressa negli occhi e nei cuori di chi l’ha vista prima ancora che negli almanacchi, per i quali quella non fu che l’ennesima vittoria del Pirata all’interno di un Giro dominato in lungo e in largo (naturalmente fino a Madonna di Campiglio, ma questa è un’altra storia).
Tadej, una maglia rosa praticamente certa, ma per niente scontata
Detto ciò, sarebbe comunque un errore pensare che Pogačar abbia già ipotecato la maglia rosa prima ancora di partire, e non solo per le sfighe di cui sopra, sempre dietro l’angolo in una qualsiasi gara a tappe di tre settimane. Anche al netto degli imprevisti, infatti, lo sloveno dovrà ugualmente misurarsi innanzitutto con sé stesso e con l’epocale progetto dell’accoppiata Giro-Tour che, giocoforza, lo costringerà a risparmiare quante più energie possibile: e se c’è un fondamentale in cui il fenomeno di Komenda ha fin qui dimostrato dei limiti, questo è proprio la gestione dello sforzo, avendolo visto spesso e volentieri esagerare.
Basti pensare alla prima parte di Tour 2022 corsa da autentico “sborone”, voglioso di dimostrare la sua superiorità ad ogni traguardo – compresi quelli volanti – salvo poi finire gambe all’aria tutto in una volta, tra Granon e Galibier, in quella 11esima tappa ormai consacrata alla storia e nella quale Tadej, all’eccesso di foga dei giorni precedenti, aggiunse l’errore capitale di voler seguire gli attacchi di tutta la Jumbo – Roglič e Laporte (Laporte!) compresi – quando già allora era chiaro che l’unica ruota da seguire avrebbe dovuto essere quella di Vingegaard.
E anche al Tour dello scorso anno, se vogliamo dirla tutta, l’effervescenza palesata nei primi giorni da Pogačar ci era sembrata eccessiva, se non gratuita: perché il suo alter ego danese ha poi dimostrato di non patire minimamente quella tanto sbandierata “guerra psicologica” che, a conti fatti, si è rivelata più banalmente uno spreco di energie. Poi per carità, magari i nodi sarebbero ugualmente venuti al pettine in ragione di una preparazione necessariamente raffazzonata dopo la frattura allo scafoide rimediata alla Liegi, ma è lecito pensare che una parte pur piccola della cotta patita sul Col de la Loze debba essere ricondotta anche agli scattini a favor di telecamera inscenati fin dalla grande partenza di Bilbao.
Per restare a quanto visto in questo primo scorcio di 2024, poi, tanto l’eccezionale cavalcata solitaria delle Strade Bianche che il vuoto fatto, sistematicamente, ad ogni tappa di montagna del Catalogna – dove lo abbiamo visto andarsi a prendere perfino la tappa conclusiva di Barcellona! – magari saranno stati pure dei test, ma rappresentano delle dimostrazioni di forza che il nostro non potrà permettersi di ripetere anche al Giro ogni qualvolta troverà della salita sotto alle ruote. Altrimenti rischia di pagare pegno, se non da Torino a Roma, quantomeno da Firenze a Nizza, dove per la prima volta si concluderà il Tour de France sfrattato dagli Champs Elysées per la concomitanza con i Giochi di Parigi.
…E comunque ci sono pure gli avversari
Infine, comunque, due parole le meritano anche gli avversari di Pogačar: che non saranno Vingegaard ed Evenepoel, ma non sono nemmeno “gli ultimi degli stronzi” come, invece, qualcuno vorrebbe dipingerli. Geraint Thomas, nonostante vada serenamente per gli 89 anni, è pur sempre reduce da un Giro perso per una manciata di secondi e a tanto così dal traguardo, e magari quest’anno valuterà che in fondo non è il caso di perdere un quarto d’ora per cambiare bicicletta, casco e maglia della salute nella cronometro decisiva.
Ben O’Connor e Romain Bardet (quest'ultimo al netto del tempo perso nella prima tappa: un minutino, ma non diamolo già per morto), sono corridori solidi che hanno preparato l’obiettivo a puntino; Damiano Caruso e, soprattutto, Nairo Quintana, sembrano effettivamente avere un grande futuro alle spalle, ma entrambi possono confondere le acque per tenere nascosti i veri capitani di Bahrain e Movistar, che sono Antonio Tiberi ed Einer Rubio, due di cui nessuno conosce ancora i limiti, specie per quanto riguarda l’italiano. E a proposito di italiani, perché non gettare un po’ di malsana e immotivata pressione anche sulle fragili spalle degli esordienti Davide Piganzoli e Giulio Pellizzari? Non vorremo mica iniziare a tutelare – così, di punto in bianco – i nostri migliori prospetti!
Limiti del tutto ignoti, poi, sono quelli di Florian Lipowitz, 23enne rivelatosi al recente Giro di Romandia, e che in Bora farà coppia con Daniel Martínez, corridore che ha fatto della discontinuità il suo miglior pregio, ma che ha pur sempre all’attivo un quinto posto al Giro 2021 corso da gregario di Bernal e che, a inizio stagione, ha ripetutamente sverniciato in salita Evenepoel all’Algarve, per quel che vale.
Infine, il nome più stuzzicante: Cian Uijtdebroecks avrà pure tolto le rotelle da pochi mesi, ma diamine, se lo scorso inverno la Visma ha fatto carte false (speriamo, non letteralmente!) per strapparlo alla Bora, dovrà pure aver visto in lui un talento fuori del comune! E non sarebbe certo il primo corridore ad entrare al Giro da carneade e uscirne da campione o, comunque, da nuovo grande nome del ciclismo internazionale: in fondo, per restare agli anni recenti e senza voler citare il mitologico Bufalo (José Enrique Gutiérrez Cataluña, secondo alle spalle di Ivan Basso nel 2006 – ah, quanti ricordi!), chi erano Damiano Cunego, Andy Schleck, Mikel Landa, Richard Carapaz, Tao Geoghegan Hart e Jai Hindley prima della corsa rosa?
E pensiamo anche agli stessi Tom Dumoulin e Primož Roglič e alla nuova dimensione in cui entrambi vennero proiettati proprio grazie ai risultati maturati al Giro pur senza fare classifica, nel 2016. Alzi la mano, dunque, chi se la sente di escludere a priori che nella startlist apparentemente spelacchiata di questa 107esima edizione non possa nascondersi un possibile campione di domani, magari nemmeno citato in questo o in decine di altri articoli simili.