Geopolitica, senso dello sport, cittadinanza, diritti: perché non sono solo Giochi
Cosa ci lascia Parigi 2024: in quella che fu la città centro del mondo, un'edizione delle Olimpiadi pienamente coinvolta nelle tante torsioni e distorsioni della vita contemporanea
La comparsa della Nike di Samotracia, durante la cerimonia di chiusura delle Olimpiadi di Parigi 2024, è stato il punto simbolico più alto di tutta la manifestazione francese, un richiamare non solo l’origine greca classica dei giochi, ma, scegliendo un’opera presente nei saloni del Louvre, i cugini transalpini si intestano come eredi e conservatori di quella tradizione. In effetti i giochi hanno come padre fondatore proprio un francese, Charles Pierre de Frédy, barone di Coubertin, noto come Pierre de Coubertin.
Sia nella cerimonia di apertura che di chiusura, ma in genere in tutta la narrazione olimpica, la grande assente è stata proprio la Parigi capitale del mondo a cavallo del 1900 (l’epoca di de Coubertin), solo in piccola parte rievocata, ma che al pari della rivoluzione del 1789 è un momento storico alla base del presente. In quel periodo a Parigi nasce il '900: dalla medicina (un esempio per tutti, la scuola di Charcot alla clinica Salpêtrière, padre della neurologia, Freud fu suo allievo e estimatore, infatti chiamò il suo primogenito Jean-Martin) all’auto (fu grazie all’esempio di Renault e Citroën che nacque l’industria automobilistica italiana a Torino); dall’arte, manco a dirlo, alla nostra amata bicicletta e il ciclismo!
L’elenco potrebbe proseguire a lungo, la Parigi di fine XIX e inizio XX secolo è forse il luogo più affascinate e incredibile della storia moderna, paragonabile alla Firenze rinascimentale, che proprio quest’anno ha ospitato la partenza del Tour, sostituendo idealmente, e purtroppo solo temporaneamente, la capitale del paese transalpino.
Per quanto gli sfondi delle varie gare ci ricordassero la grandeur della Ville Lumière, la Francia del presente è apparsa molto lontana dai suoi fasti passati, soprattutto i primi giorni delle Olimpiadi: una città apparsa paralizzata e impaurita, non aiutata nemmeno dal bel tempo e dalla Senna. É bastato attendere l’inizio della competizione per vedere sciogliersi la tensione, per ritornare a riconoscere una Parigi bellissima e gioiosa, multietnica e inclusiva, atteggiarsi alla più bella donna d’Europa, forse non a torto, soprattutto in questi giorni.
Questo non toglie che ne esca una Francia geopoliticamente non protagonista, il presidente Macron, che ha goduto di una tregua olimpica in politica interna, è apparso debole e nell’immagine felicemente sostituito dal carisma e fascino di Tony Estanguet, presidente del comitato organizzatore.
Per capire la geopolitica dei Giochi basta guardare il medagliere. I primi quattro posti sono occupati da paesi (USA, Cina, Giappone e Australia) pacifici, purtroppo solo geograficamente, la tensione militare è alle stelle in quell'area del mondo, e lo sport è stata un’occasione per mostrare i muscoli. Sempre rimanendo in quell’area geografica, bisogna sottolineare lo straordinario medagliere di una piccola nazione di poco più di 5 milioni di abitanti come la Nuova Zelanda.
L’asse del mondo ha abbandonato l’Atlantico e si è posizionato sul Pacifico, forse non a caso i prossimi Giochi Olimpici coinvolgeranno due città sull’oceano (Los Angeles 2028, Brisbane 2032). Lo sport mai per caso segue la corrente geopolitica e il medagliere di un’Olimpiade spesso, se non sempre, certifica chi interpreta il ruolo di attore protagonista.
I vari approcci allo sport: attenzione alle élite o attenzione a tutti?
Lo stesso medagliere olimpico ci racconta anche altro, in particolare la grande prestazione dei Paesi Bassi, confermando il già ottimo risultato di Tokyo. L’esempio olandese è un ottimo spunto per una riflessione sullo sport, sulla sua diffusione a livello nazionale, sul suo ruolo sociale e sulla raccolta e gestione delle risorse economiche che lo riguardano.
Secondo l’Eurobarometro, il 56-60% della popolazione nederlandese pratica attività sportiva, la media europea è del 38%, in Italia siamo al 34%. Il primo paese in Europa, invece, è la Finlandia con 71% di praticanti e zero, sottolineo zero, medaglie a Parigi 2024; l’ultimo oro olimpico estivo del paese scandinavo risale a Pechino 2008, con Satu Silja Päivikki Mäkelä-Nummela nel Trap.
L’Italia rappresenta il paradosso opposto a quello finlandese: basso numero di praticanti, mancanza di strutture (il 50% delle scuole non ha una palestra, un solo velodromo al coperto), aree geografiche fortemente penalizzate (esiste una questione meridionale nello sport, e non solo purtroppo), ma con un bottino olimpico ottimo e che per pochi millesimi o centimetri poteva essere ancora migliore, in ogni caso l’Italia è per indice di competitività olimpica tra i primi paesi al mondo.
Ora è necessario domandarsi cosa davvero differenzi la politica sportiva di una nazione rispetto ad altre, fare di questo tema un argomento di discussione, perché dietro questi numeri c’è una scelta che come cittadini siamo tenuti a fare e a pretendere dai nostri rappresentanti. A maggiore ragione, dopo l’ingresso in Costituzione dello sport lo scorso settembre, lo Stato è ancor più responsabilizzato, anzi obbligato, a redarre una politica sportiva in cui siano chiari gli scopi e gli obiettivi da raggiungere.
Dobbiamo domandarci se guardare al modello finlandese come virtuoso oppure no, se imitare quello olandese che applica una politica di non equa gestione delle risorse per lo sport di élite, favorendo solo le federazioni che hanno possibilità di successi, con atleti assunti dallo stato senza passare dai corpi militari, con risorse raccolte prevalentemente dal gioco d’azzardo.
Apparentemente in Finlandia sembra esserci una maggiore attenzione al valore educativo della pratica atletica e dell’esercizio fisico, meno elitario e più diffuso e di squadra, soprattutto a livello scolastico; nei Paesi Bassi, malgrado l’alto numero di praticanti, pare ci sia più attenzione verso l’élite dell’élite.
L'Italia, le sue nazionali, la cittadinanza che non c'è
In Italia abbiamo una gestione a macchia di leopardo, alcune federazioni sono fortemente concentrate sugli atleti dal grande talento, lasciando spesso le briciole, a volte nemmeno quelle, alla base del movimento; altre volte riescono a creare un sistema che rema tutto nella giusta direzione: la FIPAV (pallavolo). I risultati olimpici storici di Parigi 2024 sono frutto di una federazione che ha collaborato con tutti i soggetti, riuscendo persino a portare in nazionale un team tecnico composto dai migliori allenatori della serie A. Dietro c’è un movimento forte, un campionato, sia maschile che femminile, di livello assoluto, un pubblico numeroso, aiutato da un buono spazio televisivo, entusiasta e con una vera parità di genere.
Due parole merita anche il significato simbolico della multietnicità della nazionale di pallavolo femminile, oro a Parigi, che personalmente ritengo naturale rappresentanza della gioventù italiana. Bastano pochi minuti all’uscita da una qualsiasi scuola nostrana per capire che è persino stupido rimarcare la multietnicità, perché, anche se politicamente ancora non effettiva, la società, il futuro è già questo.
Si approfitti “qui e ora”, per riprendere lo slogan di Julio Velasco, del momento, si firmi in parlamento una legge sulla cittadinanza che riconosca a coloro che sono italiani culturalmente, linguisticamente, socialmente, di esserlo anche politicamente a tutti gli effetti. Se l’Italia ha avuto bisogno dello sport per capirlo, forse non è un vanto, ma almeno che si faccia per tutti, per chi ha talento sportivo e per chi non ce l’ha, per chi sarà il futuro del nostro Paese, anzi proprio della nostra Patria, se preferite!
Le istituzioni sportive e la salute: il laissez-faire non è la via
Tornando alla Finlandia, è chiaro che al centro ci debba essere la scuola: la necessità di curare, oltre lo sviluppo intellettivo nella materie scientifiche e umanistiche, anche quello fisico e psicomotorio. Non è un mistero che l’attività fisica migliori l’apprendimento e il rendimento scolastico.
Bisogna poi consentire a coloro che vorranno andare oltre l’attività di base, di non essere ostacolati dalla scuola, ma anzi aiutati a non tralasciare o ritardare il loro percorso formativo. In Italia è fortemente necessario combattere la sedentarietà, i dati statistici ci raccontano di un paese con un’ottima durata di vita media, ma con bassa qualità di salute, specie nella terza età.
Fare dello sport una medicina è fondamentale, il denaro investito è basso rispetto a un ritorno economico enorme sulla spesa sanitaria e sociale. Se dovessi scegliere tra il modello olandese e finlandese, non ho dubbi sul secondo, perché rappresenta davvero la rivoluzione copernicana dello sport: prima tutti, poi i migliori.
Legare il più possibile lo sport alla salute, anche a costo di perdere medaglie e trionfi sportivi (ma non è detto), con lo scopo di dare la priorità al corpo sano dell’atleta, il che significa non consentire a nessuno di scendere al 3% di massa grassa (caso Tamberi), perché pericoloso. Deve essere compito del CONI e della federazione fermare e consigliare l’atleta, non per il bene della FIDAL, anzi a suo svantaggio, ma per il bene dell’uomo Tamberi.
Che lo sport di élite non faccia bene è noto, ma a tutto ci deve essere un limite e il compito di una politica sportiva deve essere quello di far sì che nessuno sacrifichi il proprio benessere psicofisico per un risultato; una cultura magari apparentemente meno vincente, ma sicuramente più sana e diffusa nella popolazione, la cui filosofia deve riguardare anche il mondo del lavoro: la priorità deve essere la sicurezza, non il profitto.
Tamberi è un atleta eccezionale, non merita solo la nostra ammirazione, ma anche la giusta attenzione a proteggere il suo corpo dalla sua e nostra ambizione, che è un bene che ci sia, ma deve essere dosata e regolata da chi ha il dovere di farlo. Troppi atleti sono stati spremuti e poi dimenticati in passato, se non disprezzati; ma se c’è una cosa che questa Olimpiade ha iniziato a far capire, è che le nuove generazioni stanno iniziando ad avere un approccio più sereno della competizione, meno marziale, meno intossicato di arrivismo.
Cerchiamo noi pubblico e appassionati di favorire questa nuova cultura, di stare con l’atleta quando vince e soprattutto quando perde; di non pretendere sacrifici che possano compromettere la salute. Non possiamo nemmeno ignorare che il corpo dello sportivo è un modello per molti, da imitare e raggiungere. Non è neutro quello che comunica il fisico, anche se involontariamente, qualsiasi atleta lancia un messaggio, un significato che percepito genera un’emozione, un valore e, talvolta, un comportamento.
Imane Khelif e una discussione che dev'essere esclusivamente scientifica
In conclusione, due parole sul caso Imane Khelif. In passato in questa rubrica abbiamo affrontato dettagliatamente il tema dei transgender, che non riguarda specificamente l’atleta algerina, ma può essere un esempio di come si affronta una discussione così complicata. L’UCI ha escluso le atlete transwomen dalle competizioni femminili, non su una base ideologica o discriminativa, ma alla luce delle (poche) conoscenze scientifiche a disposizione.
In questi giorni abbiamo assistito ad uno spettacolo indegno e violento nei confronti della pugile, a cui, è giusto ribadirlo, è stata concessa la partecipazione alla competizione da parte del CIO, sulla base della documentazione clinica a disposizione. Fortunatamente non sappiamo nulla del quadro di Khelif, almeno la sua privacy è stata tutelata, ma può e deve essere solo il CIO a prendere questa decisione e, volenti o nolenti, bisogna accettarla. Sul CIO ricadono il merito e la responsabilità.
Che poi il tema sia complesso, non c’è dubbio, ma la discussione deve essere scientifica e va svolta nei luoghi e modi opportuni, non contro una donna che si è trovata al centro, esposta ad insulti e minacce. Prima deve venire la scienza, poi si può aprire un dibattito politico e culturale, ma mai sul singolo.
Non è un preconcetto ideologico trans-omofobo o, all’opposto, inclusivo (di che, se è donna?) ad aiutare; casi ancora più complessi si presenteranno nello sport del futuro (atleti che hanno avuto una cura genetica per una patologia, oppure chi ha protesi - non ortopediche - nel corpo, chip o altro). Senza una chiara idea di cosa sia una competizione sportiva e che significato abbia lo sport nella nostra società, sarà sempre uno sbraitare al vento, con la solita vittima sacrificale al centro: l’atleta.
Sul caso specifico, bisogna riconoscere al CIO che ha imparato dai suoi errori, in passato ha costretto atlete a cure ormonali e a violenze vere e proprie come la dimostrazione del sesso; passo dopo passo si sta arrivando attraverso la scienza a cercare le giuste risposte, solo con questo atteggiamento sarà possibile rispondere alle domande complesse del presente e del futuro.
Nel 1962 Yves Klein colorò una copia della Nike di Samotracia di blu (International Klein Blue, la statua monocromatica è un capolavoro dell’arte contemporanea), ridando nuova vita e significato ad una delle opere classiche più amate. Lo sport ha bisogno dello stesso processo, ricollocare il suo significato e valore nella nostra società, magari con la stessa grazia di Klein, per il bene non dello sport in sé ma di tutti noi.