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Bello, ma serve?

15.07.2018 19:10

Il pavé è sempre uno spettacolo unico. Ma il valore aggiunto che presta attualmente al Tour de France è discutibile. Ecco perché


Diciamolo ad alta voce e a pieni polmoni: quando un gruppo si lancia ad alta velocità su queste stradine strette, lastricate di pietroni antichi trattati con cura certosina dai locali (qualcosa di buono i francesi lo sanno fare, oltre a vincere mondiali di calcio), è sempre una grande emozione, per tutti gli appassionati di ciclismo. E non è giustificabile che un big debba astenersi dall'affrontare una qualunque difficoltà della strada, neanche questa, prima di poter essere dichiarato degno vincitore dal verdetto della strada. Tuttavia, lo spettacolo odierno ha lasciato qualche perplessità sull'opportunità dell'abbinamento Tour-pavé, tornato in auge in tempi recenti e proposto già 4 volte negli ultimi 10 anni, con risultati a volte interessanti, a volte meno. E al netto di tutti questi esperimenti, forse la modalità è un pelo da rivedere.

Dal 2010 a oggi, le alterne fortune del pavé al Tour
Il primo appuntamento del Tour con la Roubaix in epoca moderna risale al 2010, con la Wanze - Arenberg che percorreva un po' a ritroso, da nord verso sud, le strade dell'inferno del Nord, fu effettivamente un successo: la corsa esplose, con la CSC che aveva tra le mani un asso come Cancellara ed un capitano come Andy Schleck capace di seguirlo. Riuscirono a staccare Alberto Contador, che pur vinse quel Tour (sul campo) di 1'13", ribaltando il risultato del prologo. Nel 2014 lo spettacolo riproposto fu unico grazie alla pioggia, ed in quella occasione anche decisivo per il Tour de France: Vincenzo Nibali fu autore di una galoppata senza eguali tra gli uomini di classifica, che demoralizzò Contador mentre Chris Froome venne direttamente fatto fuori da una caduta. Anche senza gli infortuni dei due campioni, la tappa avrebbe avuto il merito di mettere un po' di pepe alla sfida, costringendo Contador e Froome ad attaccare.

Le edizioni successive sono risultate più fiacche: nel 2015 fu effettivamente messo in piedi un percorso molto "light", con un vincitore di livello assoluto, ma non esattamente uno specialista (Tony Martin), ed il gruppo dei big compatto al traguardo. Il risultato finale è stato simile quest'anno, anche se sono stati alla fine gli specialisti a giocarsi la tappa, ma la lotta tra i big, con l'esclusione dei caduti, si è conclusa con un nulla di fatto.

Ha prevalso la paura di farsi male
Un mix di paura e inevitabile incapacità ha impedito lo svilupparsi di una vera battaglia tra i big. A dire la verità è parso in un certo frangente, quando la gara ha cominciato a farsi "calda", che almeno una squadra avesse volontà di rendere la corsa difficile: era la Sky, pur avendo lasciato a casa due importanti specialisti come Ian Stannard e Dylan Van Baarle, ben attrezzata per un terreno come questo: non dimentichiamo che Geraint Thomas fu secondo dietro Hushovd nella tappa del 2010. Le cadute, prima di Moscon e poi di Kwiatkowski, hanno però fiaccato la spinta del team inglese, che forse avrebbe voluto colpire duro sulle disgrazie di Romain Bardet, bravissimo a rientrare ma anche graziato dall'ignavia/impotenza di molte delle formazioni di primo piano. Mancava la giusta alchimia: da un lato specialisti che non potevano permettersi di mettere in difficoltà i rispettivi capitani, dall'altro formazioni con ambizioni limitate che han fatto meno di quanto farebbero in una Roubaix: l'indice è puntato verso la Quick-Step, che si è "accontentata" di portare Lampaert a giocarsi il successo nel finale, senza provare a spaccare il gruppo prima (una situazione che avrebbe potuto favorire il capitano Bob Jungels, del quale ancora non sono chiare le intenzioni di classifica. In generale, ci sono state troppe cadute, favorite dalla polvere e dal breccino nelle curve più asciutte che d'inverno: almeno una decina, contando quelle avvenute nel gruppo principale. Due o tre possono dare il là a una particolare situazione di gara, dieci mandano in tilt un po' tutti.

Pavé da riproporre o no?
Vista l'indigestione di pavé degli ultimi anni e l'assenza di big realmente capaci di sfruttare una situazione simile, non sarebbe una brutta idea per ASO e soci accantonare per un po' l'idea di tornare sulle pietre. Al ciclismo moderno il pavé in un GT può dare molto poco della spettacolarità che si riesce a vedere una Roubaix (ok, anche le Roubaix non sono tutte memorabili, ma se non altro sono corse a sé stanti), e comunque non è mai bello vedere una competizione in cui le cadute e gli incidenti diventano un aspetto decisivo. Però, lo stesso ciclismo muta in fretta, e chissà che non si torni a partorire un giorno generazioni di atleti abbastanza completi da battagliare nel pavé per una corsa a tappe (a tal proposito: occhio a Remco Evempoel, capace di vincere un campionato europeo juniores in modo imbarazzante dando 10' al secondo classificato), o un ciclismo più sicuro dove per gli atleti sarà più facile restare in piedi.
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