L'ipotetica fusione Jumbo-Quick Step? Un segnale di grande debolezza
Unendosi al Wolfpack, i Calabroni dovrebbero rinunciare a parte del roster, indebolendosi. Un’operazione che è la spia di quanto sia difficile trovare sponsor (si parla di Amazon, ma solo come partner secondario) e della precarietà del sistema
Se la squadra più forte al mondo, reduce dalla stagione più dominante che si sia mai vista nella storia del ciclismo, sta seriamente pensando ad una fusione con un altro dei giganti del gruppo, allora c’è qualcosa che non va. Già, perché se perfino in Olanda e in Belgio – paesi in cui il ciclismo è una religione e, nel caso dei Paesi Bassi, le imprese godono pure di una fiscalità agevolatissima – fanno fatica a trovare aziende interessate a investire nelle due ruote, allora la situazione è veramente seria.
La vicenda, ormai, è nota: stando alle indiscrezioni del quotidiano olandese Wielerflits, e che nessuno dei diretti interessati ha veramente smentito, la Jumbo-Visma e la Soudal-Quick Step starebbero pensando di unire le forze già dal 2024. O per meglio dire le debolezze, perché in quale altro sport di vertice abbiamo mai visto due delle realtà più forti e rappresentative pensare ad una fusione del genere, e in tempi così ristretti? E infatti, più che la costruzione di un dream team, pare che la necessità comune ad entrambi i gruppi sportivi sia, piuttosto, quella di restare a galla.
Già, perché è di questo che stiamo parlando: i sodalizi diretti da Richard Plugge e Patrick Lefevère non stanno certo meditando ad un’unione nel nome dell’amore, né mossi dall’obiettivo di dominare il mondo. Perché i Calabroni già lo dominano, come dimostrano i risultati eclatanti di questa stagione, ed i Lupi lo hanno spesso fatto in passato, almeno nelle classiche del nord.
La ragione di questa operazione, molto più terra-terra, sta dunque semplicemente nella difficoltà a trovare nuovi sponsor: una ricerca che il burbero Lefevère, storico team manager della Quick Step, porta avanti a suo modo già da anni ma con scarsi risultati, tanto che è ormai una costante di ogni sessione di mercato vedere il Wolfpack lasciare andare via i suoi uomini migliori, non avendo risorse sufficienti per ritoccarne al rialzo i contratti. Per quanto riguarda il team di Plugge si tratta, invece, di un’esigenza maturata in questi ultimi tempi, e che sinceramente nessuno immaginava fosse tanto impellente, avendo sì annunciato la Jumbo l’intenzione di lasciare, ma al termine del prossimo anno. «E che problema avrà mai, la squadra più forte al mondo, a trovare un nuovo partner con un anno e mezzo di anticipo!» – pensavamo noi…
E invece, pare avercelo eccome, questo problema, altrimenti non si spiegherebbe davvero l’esigenza di andarsi a impelagare in una trattativa così complicata con un personaggio così spigoloso – il Lefevère di cui sopra – e dovendo per forza di cose sacrificare una parte considerevole del proprio roster stellare. Un roster che, al momento, vedrebbe già sotto contratto per l’anno a venire 27 corridori, fra i quali tutti i big gialloneri a cominciare dai tre della Tripla Corona – Jonas Vingegaard, Primož Roglič e Sepp Kuss – proseguendo con il neocampione europeo Christophe Laporte, l’astro nascente delle volate Olav Kooij e colui che ha strappato al Messico il primato mondiale nella produzione di argento: Wout van Aert.
Con una simile squadra, dunque, quale interesse tecnico avrebbe mai la (futura ex) Jumbo ad unirsi con chicchessia, e tantomeno con chi ha già sotto contratto un personaggio tranquillo, discreto e per nulla ingombrante come Remco Evenepoel? Con tutto quello che è già successo all’ultima Vuelta, dove obtorto collo sono stati costretti a lasciare la ribalta a Kuss, ce li vedete Jonas e Primož a divedersi i gradi di capitano nei grandi giri con quello lì? E ce lo vedete, Remco, a lavorare per quegli altri due? E chi glielo andrebbe a dire, a Van Aert, che dal prossimo anno c’è da sgobbare anche per il ragazzetto?
Insomma, è chiaro ed evidente che, se potessero, i vertici del team olandese preferirebbero di gran lunga proseguire per conto proprio e che questa, con ogni probabilità, rimanga ancora la loro prima scelta – magari approfondendo i discorsi con Amazon che nelle ultime ore sembrerebbe essersi fatto avanti, ma solo come co-sponsor e mettendo sul piatto la “miseria”, per un gigante come quello fondato da Jeff Bezos, di 15 milioni – altrimenti la lista di corridori da tagliare per fare spazio ad almeno una dozzina di Quick Step sarebbe lunga, e dolorosa: il primo con le valigie in mano, in un simile scenario, sarebbe naturalmente Roglič, pronto a stracciare i due anni di contratto ancora in vigore per accasarsi, con ogni probabilità, alla INEOS.
E logica vorrebbe che anche Wout si guardasse attorno, ritrovandosi nei piedi, oltre agli attuali compagni di squadra e al già citato Evenepoel, anche velocisti come Tim Merlier e l’arrembante Luke Lamperti, o uomini da classiche come Kasper Asgreen, Yves Lampaert e, magari, pure Julian Alaphilippe! Ma conoscendo Van Aert, non ci sorprenderemmo se decidesse ugualmente di restare. E in tal caso ci auguriamo che, nello staff della nuova ipotetica squadra, possa quantomeno trovare spazio anche un bravo psicanalista.
Al di là del destino dei singoli, però, veniamo a quello che rappresenta il nodo centrale di tutta questa vicenda, e che non è l’aspetto sportivo, perché se davvero questa clamorosa fusione è un’ipotesi al vaglio delle parti, è la sostenibilità del sistema ciclismo ad essere messa seriamente in discussione, anche ai livelli più alti. Perché che il mondo giovanile, quello Continental e le Professional si barcamenino da anni tra mille difficoltà, è cosa nota, ma se nemmeno chi è sul tetto del mondo dispone della serenità necessaria a programmare a medio termine la propria attività, allora significa veramente che la bolla rischia di scoppiarci in mano.
Pare che il budget annuale della Jumbo-Visma si aggiri intorno ai 50 milioni di euro, e questo ne fa di gran lunga la squadra più ricca. Stiamo parlando comunque di poca cosa rispetto al calcio, alla formula uno o alle leghe professionistiche americane, ma qual è la grande differenza tra il ciclismo e tutti gli altri sport? Facile! La differenza è che nel ciclismo non esiste uno straccio di entrata: non dalla biglietteria, non dai diritti tv, non dalla compravendita dei corridori e nemmeno dal merchandising, se non in percentuali irrisorie. E allora, come può una squadra finanziare per più di qualche anno i programmi di ricerca e sviluppo necessari a rimanere al top? Come può pensare di trattenere i suoi migliori talenti? E come può, al contempo, sobbarcarsi gli esorbitanti costi di gestione di organici sempre più grandi e di trasferte sempre più lunghe e dispendiose?
Vale infatti la pena ricordare che un World Team è letteralmente impegnato in un costante giro del mondo da gennaio ad ottobre e che, da questo punto di vista, le corse nate nel nuovo millennio in ogni angolo del globo terracqueo hanno fatto schizzare i costi alle stelle, portando però uno scarsissimo valore aggiunto al prodotto, il cui core business continuano ad essere il Tour de France, le grandi classiche, il Giro d’Italia e, già in misura minore, la Vuelta a España.
E per carità, dal punto di vista dell’UCI questa internazionalizzazione avrà sicuramente portato dei benefici che si traducono, magari, nell’allargamento della platea di pubblico e praticanti e, sicuramente, in nuove relazioni politico-finanziarie che certamente, ai colletti bianchi di Aigle, schifo non fanno. Ma dal punto di vista delle aziende che nel ciclismo vorrebbero investire, attraverso la sponsorizzazione delle squadre, questa espansione del calendario è stata utile o dannosa? In altre parole, cosa viene in tasca ad una catena di supermercati olandese o ad un’impresa produttrice di silicone (perché questo sono, rispettivamente, la Jumbo e la Soudal) dal mostrare i propri marchi per due giorni di corse in Canada o per una settimana in Australia, peraltro in orari poco appetibili al proprio pubblico di riferimento?
Non stupiamoci, quindi, se ad essere cresciuta è la presenza in gruppo di brand che rispondono ad una logica più geopolitica che commerciale – UAE, Bahrain, Israel – il cui scopo è appunto quello di affermare la propria identità nazionale e non quello di vendere un prodotto specifico. E a cui, quindi, va bene essere presenti in quanti più contesti possibili.
Ma è davvero questo il destino che attende il ciclismo e, più in generale, lo sport? Diventare, cioè, uno strumento di soft power per paesi che, ad essere generosi, potremmo definire controversi, come evidenzia in maniera lampante l’acquisto massivo di stelle del calcio da parte delle squadre (di stato) saudite? E come, appunto, in maniera meno evidente, ma altrettanto inesorabile, sta avvenendo anche nel mondo del pedale? O forse non sarebbe meglio – senza per questo mettere in discussione l’espansione del movimento, ci mancherebbe – adottare politiche che consentano al ciclismo di consolidarsi in primis laddove ha il suo più forte radicamento storico e culturale? E cioè fornire alle squadre gli strumenti per sostenersi da sé, senza dipendere dalle strategie di marketing delle aziende sponsor?
Come è possibile che un team non abbia entrate, e sia però obbligato a correre tutte le corse del World Tour e, quindi, a dovere allestire organici da trenta corridori e decine e decine di persone al seguito tra direttori sportivi, massaggiatori, meccanici, medici, cuochi e quant’altro? Non si potrebbe, perlomeno, rendere facoltativa la partecipazione a tutto quello che non è grande giro o classica monumento, liberando, peraltro, maggiori slot per le Professional dei vari paesi, sempre alla disperata ricerca di wild card?
E per quanto irrisori rispetto a quelli del calcio, non sarebbe l’ora di redistribuire i diritti televisivi non solo tra gli organizzatori delle corse, ma anche tra chi, appunto, le corse le rende possibili con i propri corridori? Quanto, poi, ai corridori stessi, non è forse arrivata l’ora di regolamentarne una volta per tutte la compravendita, facendo sì che i trasferimenti di corridori sotto contratto diventino la regola e non l’eccezione? Consentire sistematicamente alle squadre di monetizzare un’eventuale cessione, infatti, permetterebbe loro di costruire un tesoretto buono a mettersi al riparo dai chiari di luna degli sponsor. E oggi, magari, Jumbo e Quick Step non sarebbero costrette a questo improbabile matrimonio riparatore.