Caso Javier Romo: a volte gli ispettori UCI possono restare fuori dalla porta!
Il corridore spagnolo è stato oggetto di un controllo a sorpresa mentre era in ospedale, sottoposto a cure per una frattura alla mascella (con complicazioni serie). Va bene la lotta al doping, ma prima c'è la dignità della persona
Javier Romo, ex triatleta ed ora professionista del World Tour nel team Astana, è stato protagonista di un episodio che deve interrogare tutti sul reale scopo di un controllo antidoping. Grazie al giornalista di Teledeporte Carlos de Andrés, abbiamo saputo che gli ispettori dell’UCI hanno effettuato un prelievo al ciclista spagnolo mentre questi era ricoverato in ospedale.
Durante la terza tappa dell’Itzulia (Giro dei Paesi Baschi) il corridore è stato costretto al ritiro per un’epistassi (emorragia dal naso). La corsa basca non porta fortuna a Romo: già l’anno precedente durante la seconda frazione il 24enne di Villafranca de los Caballeros si dovette ritirare per una caduta che gli procurò una ferita al capo.
Data l’entità dell’emorragia, il corridore è stato trasferito presso l’ospedale di Gipuzkoa per le cure del caso. Effettuato come da prassi un tamponamento nasale, dopo circa un’ora il ragazzo è stato dimesso. Questo dettaglio, vedremo, è importante.
Giunto all’abitazione in cui risiedeva in quei giorni, l’ex triatleta ha lamentato nuovamente una copiosa emorragia nasale, quindi è stato costretto a tornare in ospedale. Secondo quanto dichiarato dallo stesso corridore a Carlos de Andrés, il peggioramento clinico è stato causato da una frattura della mascella e da una perforazione che ha provocato una perdita di liquido cefalorachidiano. Una situazione clinica non banale, che ha richiesto il ricovero nella struttura, infatti la perdita di liquor encefalico è un indizio che la meninge, barriera che protegge il sistema nervoso centrale, non è più impermeabile, quindi possibile via di accesso per una grave infezione cerebrale o della
meninge stessa.
Nelle stesse ore in cui Romo riceveva le cure in nosocomio, si sono presentati presso la sua abitazione gli ispettori antidoping dell’UCI. È probabile che nella concitazione degli eventi, la preoccupazione per lo stato clinico, il fatto che sia tornato a casa subito dopo il primo accesso in ospedale, tutto abbia concorso a far dimenticare al corridore di segnalare il temporaneo cambio di luogo in cui fosse reperibile. Ricordiamo, ai pochi che non lo sapessero, che i ciclisti professionisti sono obbligati a segnalare sempre la sede in cui possono essere rintracciabili per un esame a sorpresa. Questo sistema è indubbiamente invadente nella vita dei corridori, ma ha consentito passi da gigante alla lotta all’uso di sostanze proibite in questi anni.
Gli ispettori, finalmente informati della presenza di Javier Romo presso l’ospedale, lo hanno raggiunto ed hanno effettuato il prelievo al letto del paziente. Questo comportamento è stato stigmatizzato dalla stampa iberica e non solo, coi controllori anti-doping dell’UCI che sono stati definiti come “vampiri”!
L’episodio deve interrogarci su quale sia il confine tra la rigidità necessaria di una regola e la dignità di una persona. Inoltre, nel caso specifico entra in gioco il fatto che è stato eseguito un atto medico al letto di un paziente da personale non di quell’ospedale.
Già in passato abbiamo saputo di controlli antidoping fatti in momenti decisamente inopportuni. Fece molto discutere il caso di Kevin van Impe che venne “visitato” dagli ispettori dell’UCI mentre era in obitorio per il figlio prematuramente deceduto poco dopo la nascita. In quell’occasione ci fu una solidale protesta dei colleghi del corridore fiammingo alla partenza dell’ultima tappa della Paris-Nice. Il vincitore di quel giorno, il compianto Davide Rebellin, dichiarò: “Facciamo tutto il possibile per rendere questo sport trasparente. Stiamo dando la nostra urina, il sangue ed ora i capelli. È impossibile fare di più. Supportiamo i controlli, ma ciò di cui sono preoccupato è l'invasione della privacy. Vengono a casa nostra e siamo sempre disponibili. Devono ricordare che anche noi siamo persone e non gangster”.
“Dura lex, sed lex”, è di fatto la risposta data dall’UCI, il caso Romo ne è un’ulteriore dimostrazione.
Nessuno mette in discussione la necessità di un sistema di reperibilità che consenta controlli non programmati, è indiscutibile che abbiano dato credibilità al ciclismo; anzi, a volte abbiamo letto dichiarazioni di corridori che lamentano di mancati esami a sorpresa a loro stessi ed ai colleghi. Allora come trovare il giusto equilibrio tra privacy e rispetto della dignità della persona-atleta contro la necessità di un sistema che sia efficace nella lotta al doping?
La risposta è ancora una volta culturale, non tecnica.
Già in passato in questa rubrica abbiamo affermato che porre la tutela della salute come concetto prioritario rispetto alla veridicità del risultato sportivo, significa avere la dignità psico-fisica dell’atleta, di élite o amatoriale, come essenza e ragione di essere dello sport. È questa la chiave: la dignità di un ciclista e di un uomo coincidono. Una lotta al doping che ha come primo scopo del suo essere la salute dello sportivo non ha difficoltà a rispettare un grave lutto o la delicatezza di un quadro clinico durante un ricovero, è capace di fare un passo indietro quando serve. Si ricordi che Δίκη, la Dea della Giustizia, è bendata, ma nel senso di imparzialità, non di cieco ed inumano furore.
Ancor più delicata è la seconda questione: un atto medico eseguito in un ospedale da chi non è autorizzato a farlo. Ovviamente in questo caso entrano in gioco aspetti medico-legali complessi, che esulano dalle competenze di chi scrive; ma indubbiamente la vicenda pone la stessa UCI in una posizione scomoda. Indipendentemente da aspetti legali, l’atto da parte di terzi di prelevare del sangue al letto di un degente, che oltretutto aveva appena sofferto una copiosa emorragia, è eticamente inaccettabile ed offensivo per i professionisti che lavorano in quella struttura.
Auguriamo non solo una pronta guarigione a Javier Romo, ma anche che questa sua disavventura sia la molla che faccia capire ai vertici dell’UCI e della WADA che lo scopo della lotta al doping deve essere la salute e dignità dell’atleta, solo secondariamente la veridicità del risultato sportivo.