Tour de France: au coeur du peloton, una recensione onesta
Analisi critica con gli occhi di un appassionato, ma con il target ben chiaro in mente. Un prodotto valido e utile, narrativamente accattivante, che saprà attrarre nuovi divoratori di ciclismo
Negli ultimi anni lo sport è sempre più raccontato attraverso la produzione di documentari, confezionati per uno spettatore abituato all’uso di piattaforme streaming.
Che sia calcio, tennis o automobilismo, il racconto documentaristico ha sempre più successo, attirando una nuova forma di interesse su una disciplina e nuovi appassionati come nel caso della Formula 1. In genere il linguaggio di queste produzioni è poco o per nulla giornalistico, infatti, rispetto ad un classico reportage, la forma narrativa utilizzata, un docu-dramma in senso lato, è capace di conquistare l’attenzione del pubblico con meno fatica ed impegno da parte dello spettatore.
Ce n’è per tutti i gusti, a pagamento o gratis, lunghi o brevi audiovisivi in genere di qualità molto alta, in cui dal montaggio alla fotografia nulla è lasciato al caso.
Si aggiunge a questa lunga lista, con aspettative molto alte, la recente docuserie sul Tour de France di Netflix; lo scopo, infatti, è quello di ripetere il grande successo di Drive to survive, ambientato nel mondo della Formula 1. Non è un caso che il Ciclismo, con la C maiuscola, cioè la più grande ed importante corsa al mondo, il Tour de France, abbia scelto proprio gli stessi produttori della fortunata serie ambientata nel mondo delle corse automobilistiche. Drive to survive e Tour de France: au coeur du peloton condividono lo stesso obiettivo: attrarre nuovi spettatori, nuovi appassionati, aumentare la visibilità del loro prodotto e di conseguenza degli sponsor coinvolti. In altre parole, il target non è il fedele tifoso, colui che conosce quasi tutto di quel mondo, che ricorda già l’esito di ogni tappa di quel Tour, ma un nuovo pubblico possibilmente giovane. Se vogliamo esprimere un giudizio sulla docuserie, non possiamo dimenticare che questo è il suo principale fine.
La forma del documentario sportivo non è certo nuova, ce ne sono stati ottimi in passato (più reportage che drammi), ma mai così tanti come negli ultimi anni e soprattutto non con questa finalità “pubblicitaria” per una disciplina.
Questo ci invita a riflettere sulla narrazione sportiva. Ogni sport ha la sua storia, la sua trama, i suoi tempi narrativi e non tutti si adeguano al racconto per immagini per eccellenza, il cinema. Se vogliamo, le docuserie riescono lì dove non arriva la settima arte, a rendere credibile ed appassionante un racconto come o più della visione dell’evento sportivo stesso, anche e soprattutto per chi non è tifoso.
Non c’è dubbio che nessuno sport sia stato capace più della boxe di conquistare il grande schermo, dalla saga dal successo planetario di Rocky Balboa a capolavori assoluti della cinematografia, come Toro Scatenato (di Martin Scorsese) e Rocco e i suoi Fratelli (di Luchino Visconti), ed altri ancora; la nobile arte pugilistica è protagonista di scene indimenticabili nella memoria collettiva. Questo purtroppo non sta evitando la crisi di questo bellissimo e storico sport, tristemente testimoniata dalla sua probabile esclusione dai Giochi Olimpici di Los Angeles nel 2028. I grandi film regalano miti di celluloide, ma pochi tifosi. Bisogna anche dire che il cinema stesso vive un momento di radicale cambiamento nella produzione e distribuzione, proprio a causa delle nuove piattaforme on-demand.
Perché solo la boxe e pochi altri sport, forse il baseball, sono così cinematografici? Perché attori del livello di Robert De Niro o Alain Delon non hanno mai interpretato un ciclista, se non forse in film minori, ed invece si ricorda che hanno indossato i guantoni e sono saliti sul ring? Indubbiamente la teatralità del pugilato, il “cerchio quadrato” come palcoscenico perfetto, il lato drammatico della violenza, la facilità filmica stessa di un incontro giocano un ruolo determinante.
E il ciclismo?
Se da un lato si ritiene la boxe lo sport cinematografico per eccellenza, il ciclismo, mia opinione personale, è lo sport più letterario, con una corposa e splendida letteratura alle spalle. La struttura stessa del racconto è racchiusa in una corsa in bicicletta: un inizio, uno svolgimento ed una fine; una partenza, un percorso ed un arrivo. Cos’altro è una storia se non un protagonista, la sua azione, ancor meglio se attraverso dei luoghi noti allo spettatore, che arriva ad essere altro del sé di prima, a vivere un cambiamento.
Il ciclismo è l’apoteosi di un racconto, non sarà mai come nel calcio o nel basket dove un gol oppure un canestro ad inizio partita varrà quanto quello ad un secondo della fine, pathos a parte; i chilometri mano a mano che vengono percorsi cambiano di significato e la linea di arrivo non è un semplice scadere del tempo, ma la “linea d’ombra”, il passaggio, la metamorfosi del protagonista, il corridore. Lo scenario narrativo perfetto per un documentario, la storia è già scritta, pronta solo ad essere raccontata.
Gli autori di Tour de France: au coeur du peloton hanno dimostrato di conoscere alla perfezione la grammatica del racconto, la padroneggiano talmente bene che hanno saputo magistralmente gestire e sconvolgere la cronologia della corsa; è talmente forte la struttura narrativa del ciclismo che regge qualsiasi intreccio temporale. Nel documentario, infatti, non viene riportato fedelmente tappa dopo tappa il romanzo del Tour 2022, ma lo spettatore è guidato a seguire le varie linee narrative, ognuna con la sua successione temporale, non necessariamente lineare, ma con salti tra una frazione e l’altra, avanti ed indietro, che magari in un primo momento possono confondere lo spettatore, ma che permettono a questi di cogliere al meglio le varie vicende dei protagonisti.
È chiaro fin dall’inizio che ai creatori del documentario interessassero soprattutto i personaggi, sia singolarmente sia come squadra. Ogni episodio è un percorso, un ritratto, un Rashomon del Tour di quel corridore, ognuno diverso da quell’altro: il bucolico e romantico Pinot, il riscatto di Jakobsen dopo la rovinosa caduta al giro di Polonia, il “vecchio” saggio ed anche un po’ malinconico Thomas, i tormenti di Van Aert e Van der Poel. La scelta non è certo casuale, i ciclisti coinvolti sono i più famosi e forti al mondo, le storie secondarie nascoste in gruppo non sono state raccontate, vuoi per mancanza di tempo, vuoi perché all’ipotetico inesperto spettatore ogni corridore è inedito.
Il filo narrativo generale del Tour, la stessa lotta per la maglia gialla si coglie solo a tratti (probabilmente dovuto al fatto che la UAE di Pogačar non abbia partecipato alle riprese), ma è chiaro che per gli autori la gara è solo lo spazio e l’azione in cui i vari personaggi agiscono; sono le umane emozioni ad interessare, le vicende personali, i volti e corpi trasfigurati dei corridori ad essere al centro, a volte insistendo anche troppo sulle cadute che normalmente avvengono in corsa.
Come appassionato di ciclismo ho difficoltà ad esprimere un giudizio, chi segue abitualmente Grand Tour e classiche non porta a casa granché di nuovo, eccetto qualche dietro le quinte di alcune squadre. Se, invece, vesto i panni solo dello spettatore di un documentario, devo riconosce che ogni linea narrativa è accattivante, coinvolgente, emozionante; certo una scrittura drammatica, anche troppo a volte, ma che ha tutte le carte in regola per conquistare l’interesse, speriamo la passione, dei neofiti di questo sport.
Chi si accingerà a guardare la serie su Netflix è meglio che lasci da parte la sua competenza, le sue conoscenze sulle corse, ma colga il filo emozionale che riesce a trasmette l’opera; non siamo di fronte ad un capolavoro, ma senza dubbio ad un prodotto ben pensato ed eseguito. A mio parere, un suiveur troverà più interessante, sempre sulla stessa piattaforma, il documentario El día menos pensado, soprattutto la prima stagione, dove si svelano tratti psicologici e retroscena del Team Movistar, il cui venirne a conoscenza arricchisce la nostra passione.
In conclusione, posso esprimere un giudizio positivo su Tour de France: au coeur du peloton, speranzoso che possa aiutare il ciclismo ad allargare la base dei suoi appassionati; non una vera rivoluzione nella forma e stile del racconto sportivo, ma un prodotto valido ed utile al suo scopo.
Infine, permettetemi, a quei pochi che non lo hanno già visto, di consigliare la visione del capolavoro cinematografico per eccellenza del documentario sportivo: A Sunday in the Hell (di Jørgen Leth), il racconto della Paris-Roubaix del 1976. Un’opera semplice e perfetta nel descrivere questo sport, un gioiello che saprebbe affascinare anche colui che a malapena conosce il Tour de France ed il Giro d’Italia, con tempi forse troppo lunghi per lo spettatore moderno, ma dal valore artistico assoluto. Semplicemente imperdibile.
Buona visione.