Siutsou si racconta per la prima volta dopo la positività: «Troppe anomalie nel controllo»
Per la prima volta dall'annuncio della sua positività, Kanstantsin Siutsou ha deciso di parlare della sua vicenda. L'esperto corridore bielorusso ha rilasciato oggi un'intervista al quotidiano locale Sport.tut.by dichiarando le proprie perplessità sul controllo avverso emerso dalle analisi.
«Ho saputo della positività» racconta il trentasettenne «al mattino, prima di andare ad allenarmi. Ho aperto la casella di posta e ho visto un mail dell'UCI. Sono rimasto scioccato: una ventina di minuti dopo, sul web è apparso il comunicato della squadra (la Bahrain Merida, ndr), come se lo sapessero già. I primi giorni dopo la notizia non sono mai uscito da casa».
Entrando nel dettaglio, Siutsou spiega: «Per la prima volta in 14 anni da professionista, il campione del sangue prelevato non si coagulava dopo il controllo. In secondo luogo, la provetta per le urine è stata consegnata al laboratorio due giorni e mezzo dopo il prelevamento: come è possibile che ci siano volute 30 ore per percorrere 200 km? Una volta sono stato sottoposto ad un controllo negli Emirati Arabi Uniti e il campione è arrivato in laboratorio (in Europa, ndr) dopo 12 ore. Inoltre la provetta utilizzata è quella che ha creato tanti problemi nei controlli ai Giochi Olimpici di Sochi».
E l'ex atleta di Fassa Bortolo, Columbia e Sky prosegue nel racconto: «Nel sistema ADAMS le informazioni sullo svolgimento del test sono apparse solo dopo un mese quando di solito l'aggiornamento è pressoché istantaneo. E il mio passaporto biologico era in regola fino ad allora. E un'ultima cosa: al controllo a sorpresa si è presentato solamente un ispettore della WADA quando è previsto che ce ne siano due. Potevo tranquillamente rifiutarmi di sottopormi al test e invece l'ho fatto: se avessi avuto qualcosa da nascondere, non pensate che avrei detto di no al test?».
Siutsou continua: «Ho contattato la WADA e non ho avuto alcuna risposta, così come il sindacato dei corridori non mi ha dato alcun supporto. Inizialmente volevo lottare fino all'ultimo per dimostrare la mia innocenza: ho visitato laboratori, ho parlato con avvocati ed esperti. Ma poi ho iniziato a capire che sarebbe un enorme esborso di denaro e il procedimento va avanti per anni: ho 37 anni, che squadra potrebbe prendermi in futuro? Il caso di Alex Schwazer mi ha fatto riflettere: ha lottato tanto ma non ha ricavato niente. Quello che a me importa è che le persone importanti della mia vita credano nell'innocenza e così è. E per il futuro non ho alcun interesse nel rientrare nel ciclismo professionistico; ma continuerò sempre ad amare questo sport che mi ha permesso di realizzare tutto quanto ho ottenuto nella mia vita».