Ah, se il ciclismo italiano avesse un Sinner!... Lo avrebbe già rovinato
Inutile rosicare per la mancanza di un corridore forte come il tennista altoatesino: abbiamo avuto Nibali e oggi Ganna, ma nessuno dei due ha sfondato perché il movimento non ha saputo rinnovare la propria immagine
“Ah, se solo avessimo un campione come Sinner anche nel ciclismo, che manna sarebbe per tutto il movimento!”. Diciamoci la verità: se non dalle ATP Finals di Torino, è almeno dalla Coppa Davis della scorsa settimana che, noi ciclofili, stiamo rosicando tantissimo nel paragonare il derelitto movimento del pedale italiano con il momento d’oro del tennis azzurro. Tanto più se pensiamo a quali erano, invece, i rapporti di forza fino ad appena 10-15 anni fa.
E però: se anche domani facesse la sua comparsa un corridore italiano fenomenale, capace di giocarsela da pari a pari con i Pogačar e i Van der Poel, ce ne faremmo davvero qualcosa? In fondo lo abbiamo avuto per una dozzina abbondante di anni, un Sinner a due ruote: si chiama Vincenzo Nibali e ha vinto praticamente tutto quello che si poteva vincere in sella ad una bicicletta. Ma i successi dello Squalo hanno forse risvegliato l’entusiasmo popolare per il ciclismo? E dietro di lui, è forse nata una nouvelle vague di giovani talenti?
Che poi, a volerla dire tutta, perfino oggi avremmo comunque un campione di livello assoluto da spenderci, e naturalmente stiamo parlando di Filippo Ganna: uno che è semplicemente il recordman dell’ora, che è stato già due volte campione del mondo a cronometro su strada nonché il più forte inseguitore che si sia mai visto in un velodromo – sei titoli iridati individuali, una roba mai vista prima! – e che non più tardi di due anni e qualche mese fa ha trascinato il Quartetto alla riconquista di un oro olimpico che mancava da tempo immemore.
Però tutto questo non è certo servito a far esplodere la Pippo-mania e Ganna, suo – e soprattutto, nostro – malgrado, rimane un nome noto perlopiù alla ristretta cerchia degli appassionati. Né lui, né Nibali sono mai riusciti a bucare lo schermo e a riportare il ciclismo a quei livelli nazionalpopolari toccati, per l’ultima volta, con Marco Pantani a fine anni ’90.
Ed è inutile girarci intorno: è proprio per come si è conclusa la straordinaria epopea del Pirata che, nel nostro paese, da allora il ciclismo è andato incontro ad un declino forse inesorabile, o quantomeno molto difficile da arrestare, a voler essere ottimisti. È brutto da ammettere, ma se oggi nessun corridore in Italia, per quanto forte, riesce a diventare un personaggio trasversale, è perché il nostro sport è totalmente screditato agli occhi dell’opinione pubblica: ben al di là dei propri demeriti, ma coerentemente con la pessima immagine che ha dato di sé, a partire dall’insipienza politica e della pochezza culturale dei propri dirigenti.
Pensiamo solo all’ipocrisia con cui, per anni, si è affrontato il problema del doping: prima negandolo tout court, poi scaricandone la responsabilità su poche mele marce e qualche stregone, che infangavano il buon nome di un ambiente che, altrimenti, era scevro da ogni male, naturalmente! E con questa pretesa di pulizia, che sarebbe assurdo aspettarsi da qualsiasi sport agonistico (spoiler: perfino nelle bocce ci sono stati casi di doping!) ci si è consegnati senza difese allo shitstorm della stampa generalista, ben contenta di scaricare sul ciclismo (e su poche altre e altrettanto deboli discipline minori, come il sollevamento pesi o lo sci di fondo) tutti i mali dello sport.
E così, avendo abdicato da qualsiasi tentativo di contestualizzazione, è stato possibile – tanto per fare un esempio concreto, che più di ogni altro è indicativo di una certa narrazione distorta – arrivare alla completa demonizzazione di un medico come Michele Ferrari quando il di lui maestro, il professor Francesco Conconi, è ancora oggi l’indiscusso nume tutelare di alcuni dei più grandi successi dello sport italiano, a cominciare da quello olimpico.
D’altra parte, non sono solo gli annosi sospetti sul doping a penalizzare il posizionamento del ciclismo sul mercato dei gusti mainstream. Molto dipende anche dal racconto che se ne fa: saldamente ancorato e pervicacemente rivolto al passato, e ad una storia certamente gloriosa e affascinante che agli iniziati piace tantissimo ricordare ad ogni occasione. Ma che, agli occhi dello spettatore occasionale che ignora perfino chi siano stati Coppi e Bartali – figuriamoci Roche e Visentini e cosa gli possa importare, dunque, di sentirsi raccontare per la centoventisettesima volta da Beppe Conti del Tradimento di Sappada! – risulta quantomeno stucchevole. Ed il migliore incentivo allo zapping.
Non stupiamoci, allora, se oggi è diventato così difficile per un corridore arrivare al grande pubblico (anche a prescindere dalla nazionalità: in Italia tutti conoscono Novak Djoković, ma quanti conoscono Pogačar?) e se gli sponsor ci pensano non una, ma dieci volte, prima di legare la propria immagine ad un campione che, vox populi, potrebbe finire beccato da un momento all’altro, o ad uno sport il cui target di riferimento è il muratore pensionato della Bergamasca.
Perché è di questo che stiamo parlando: o davvero pensiamo che Nibali e Ganna non abbiano sfondato solo a causa del loro carattere poco incline allo showbiz? Ok, Sinner ha riportato la Davis in Italia dopo 47 anni, e viene celebrato proprio per avere ottenuto un risultato così importante in una competizione per nazionali. Ma, se è per questo, grazie a Ganna l’Italia è tornata a vincere un oro olimpico nell’inseguimento a squadre dopo la bellezza di 61 anni, da Roma ’60 a Tokyo ’20, cioè ’21.
E se ne facciamo una questione di personalità, Pippo sarà pure un musone, ma nemmeno Jannik è esattamente il nuovo Valentino Rossi: eppure nel suo caso gli sono stati sufficienti i (grandissimi) risultati ottenuti sul campo di gioco, per arrivare all’apice della fama. E cioè laddove Ganna e prima di lui Nibali – nonostante successi, nei rispettivi ambiti, addirittura superiori a quelli raggiunti finora dal tennista altoatesino, ancora a secco di trionfi in tornei dello Slam, tanto per dire – non sono mai riusciti a spingersi, proprio perché appesantiti dalla zavorra che li accomuna: l’essere degli stramaledetti ciclisti.