Il Giorno della Memoria. La storia di Albert Richter e del suo mentore tappezziere
Pistard di valore internazionale, pagò con la vita la sua avversione al nazismo e l'amicizia con l'ebreo Ernst Berliner, suo scopritore. Oggi a lui è intitolato il velodromo di Colonia
Siamo ad Ehrenfeld, uno di quattro distretti urbani di Colonia. La Colonius Fernsehturm, una colonna per le telecomunicazioni di 266 metri issata nel 1981 domina tutta la città e consente agli occhi di guardare lontano, oltre i vetri appannati della sua caffetteria. Intorno alla sua base si distendono le case, un luogo multiculturale caratterizzato dalla presenza della moderna moschea e dai numerosi murales sulle facciate degli edifici.
Non lontano c’è una strada che corre dritta e stretta tra case a due piani, è la Sommeringstrasse. Sul marciapiede davanti al numero civico 72 c’è una Stolperstein, una pietra d’inciampo a forma di sanpietrino con un lato in ottone messa apposta per ricordare che oltre il portone abitava una persona deportata o uccisa durante il nazismo. La persona in questione si chiamava Albert “Teddy” Richter, classe 1912, un ragazzo biondo che suonava il violino e realizzava figurine di gesso nell’azienda familiare.
In realtà ogni volta che poteva Albert inforcava una bicicletta comprata con i risparmi dei primi salari ed andava al velodromo di Colonia per allenarsi all’insaputa della famiglia, che non gradiva la passione del figlio per le due ruote. Lui però al suono del violino preferiva il fruscio che fanno i raggi della bicicletta e al posto delle figurine di gesso sognava di conquistare medaglie e gli applausi della gente.
Presto si accorse di lui Ernst Berliner, un tappezziere ebreo appassionato di ciclismo. Da giovane quel tappezziere aveva pedalato in pista e quando si trattava di riconoscere il talento aveva davvero l’occhio lungo. Con Ernst Berliner il nostro Albert Richter fece strada mietendo successi a destra e a manca diventando presto professionista, dopo aver conquistato il titolo di campione del mondo sprint a Roma, nel 1932.
All’epoca Parigi era la piazza principale del ciclismo su pista e Albert prese a frequentarla per lunghi periodi, all’inizio biascicando con molta incertezza le prime frasi in francese imparate al cinematografo. Gli appassionati che accorrevano a vedere i ciclisti nei quattro velodromi parigini presto iniziarono a chiamarlo ”La 8-Cylindres Allemande” (L’8 cilindri tedesco), impressionati dalla potenza e dalla fluidità della sua pedalata.
Del resto sulle rive della Senna lo apprezzavano e lo conoscevano bene da tempo, da quando era ancora dilettante ed aveva vinto il prestigioso Grand Prix de Paris. Un corridore così forte e così bravo, per giunta ariano al cento per cento, può essere una miniera d’oro per la propaganda politica, soprattutto quando si tratta di un regime come quello nazista in cerca di modelli di riferimento.
Ad Albert Richter però il nazismo non piaceva affatto, anzi. Se ne accorsero subito le camicie brune di Hannover quando nel 1934 il ragazzo di Colonia conquistò il titolo di Campione Tedesco. Una foto ritrae gli organizzatori e le Sturmabteilung vicino al vincitore con il braccio alzato nel deutscher gruss, il saluto nazionalsocialista.
Lui invece niente, sorridente ma impassibile. Un giornalista del Berliner Zeitung lo fece notare e questo gli procurò subito le prime critiche dal regime.
Lo stesso anno i pistard più forti si ritrovarono sulla pista di cemento di Lipsia nella sfida per il titolo mondiale ed i suoi dirigenti gli chiesero di indossare la maglia di lana con la svastica ma anche in quell’occasione Richter preferì infilarsi al collo quella con la vecchia aquila teutonica. Di quel periodo non ci sono foto ufficiali che lo ritraggono atteggiando il saluto nazista e non volle iscriversi al partito nazionalsocialista. Insomma, per gli sportivi tedeschi che ne seguivano le gesta Richter era “Il cannone di Ehrenfeld”, per il partito un grattacapo da gestire.
I problemi aumentarono quando Richter si rifiutò anche di rompere ogni rapporto con il proprio mentore ebreo, quell’Ernst Berliner che per sfuggire alle leggi razziali nel frattempo aveva cambiato aria trasferendosi in Olanda. Il sodalizio tra i due continuò più forte che mai, soprattutto a Parigi dove oramai Albert Richter stava per lunghissimi periodi e dove si esibiva in un gruppo itinerante di velocisti chiamato “Velocista Wandergruppe Internationale” che comprendeva altri campioni dell’epoca come il belga Jef Scherens, sei volte campione del mondo, ed il francese Louis Gerardin. I giornali francesi chiamavano i tre corridori “i tre moschettieri” e le serate al velodromo portavano un sacco di soldi nelle tasche degli organizzatori.
A Richter mancava il guizzo finale anche se la sua volata lunga e progressiva metteva chiunque in difficoltà. Forse è per questo che da professionista non riuscì mai a vincere il titolo mondiale, classificandosi terzo nel 1933, nel 1936, nel 1937 e nel 1938, oltre che secondo nel 1934 e nel 1935.
Con il passare degli anni la sua posizione diventò sempre più delicata anche se occasionalmente, su consiglio dell’amato Ernst Berliner, Albert Richter fece buon viso a cattivo gioco e si lasciò andare di malavoglia al saluto nazista o a rilasciare dichiarazioni politicamente neutre.
Sepp Dinkelkamp, velocista svizzero, dirà poi: “Confermo volentieri che Albert era un antinazista. Molto prima della guerra aveva compreso le manipolazioni e le manovre dei nazisti che considerava una banda di criminali. Se avesse fatto un patto con i nazisti, sarebbe stato molto più facile per lui, e ne avrebbe tratto un grande vantaggio. Ma Albert ha scelto un’altra strada”. La Gestapo gli chiese più volte di fare la spia durante i viaggi all’estero ma lui si rifiutò.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale Albert Richter si trovava a Milano per i Campionati del Mondo che vennero subito sospesi. In quei giorni pensò di rifiutare l’arruolamento e scrisse ad un amico: “Sono tedesco ma non posso combattere per la Germania se si rivolta contro la Francia. Non voglio evitare la coscrizione ma non voglio sparare alle persone che amo, che mi vogliono bene e alle quali devo tanto”.
Ebbe la possibilità di fuggire subito in Svizzera ma decise di tornare in Germania un’ultima volta per correre il GP di Berlino, sulla pista di legno della prestigiosa Deutschlandhalle, l’impianto sportivo ideato e progettato per la gloria di Adolf Hitler da Franz Ohrtmann e Fritz Wiemer. Era un freddo 9 dicembre del 1939 ed Albert Richter vinse.
“Il cigno è candido, senza alcuna macchia e dolcemente canta nel morire; il qual canto termina la vita”, scriveva Leonardo da Vinci nei Codici e la gara alla Deutschalandhalle fu per Richter il suo canto del cigno. Prima di salire sul treno per la Svizzera e per la libertà cucì 12.700 reichsmark nel copertone della sua bicicletta per portarli ad una famiglia ebrea da tempo espatriata. La Gestapo sapeva tutto perché qualcuno lo tradì. Nel tempo fu fatto il nome di Peter Steffes, amico e concorrente di Albert.
Alla stazione di confine di Weil am Rhein i soldi furono trovati con fin troppa facilità nel corso di una rapida perquisizione e Richter venne arrestato e portato nel carcere di Lorrach. Per screditarlo i giornali scrissero che Albert Richter aveva rubato quei soldi ed altro non era che un ladro, un miserabile ladro.
Il 2 gennaio del 1940 gli stessi giornali nazisti riportarono la notizia della morte del ragazzo di Ehrenfeld, dapprima scrivendo che era deceduto in un incidente sulla neve, poi che era morto durante un tentativo di fuga, infine che si era suicidato nella sua cella per impiccagione.
“Si è impiccato per la vergogna”, precisarono quelli della Gestapo e della propaganda nazista.
Quando si recò a ritirare il corpo di Albert, il fratello giurò di aver visto dei fori di proiettile ed anche Ernst Berliner non credette mai alla versione del regime. “Albert era il figlio che mio padre non ha mai avuto” dichiarò una volta Doris, figlia del tappezziere ebreo.
Finita la guerra Ernst Berliner cercò di risolvere il caso dell'omicidio di Richter tornando ripetutamente a Colonia. Nel 1966 sporse denuncia contro ignoti ma le indagini furono interrotte nel maggio del 1967 per mancanza di prove. Deluso, Ernst Berliner continuò a impegnarsi per far sapere a tutti chi fosse realmente quel ragazzo biondo con il coraggio delle proprie idee e con tanta voglia di volare sulla sua bicicletta.
Ad Albert Richter nel 1996 è stato dedicato il velodromo di Colonia ed il suo nome è compreso tra le vittime della disumanità nazionalsocialista. Il tappezziere ebreo Ernst Berliner ne sarebbe contento perché la storia ha un andamento tortuoso, a volte incomprensibile ma alla fine ha dato ragione ad Albert Richter, alle sue idee ed alla sua maglia di lana con l’aquila teutonica.
Dall’altra parte, la parte del torto, resta la vergogna più grande del secolo scorso vestita con le camicie brune dei nazisti e le maglie con la svastica.