Cinque cose da ricordare nel disegnare il Giro
La Corsa Rosa 2022 ha strizzato l'occhio alle scelte falsamente futuriste di ASO, ecco perché anch'essa ha finito per essere irrimediabilmente anestetizzata, perdendo per di più la sua identità
Il Giro d'Italia è stato ormai da tempo battezzato come "la corsa più dura del mondo nel paese più bello del mondo" ed era uno slogan quanto mai efficace ed identitario. Lo si capisce vedendo l'interesse che c'è per il Giro d'Italia anche all'estero, quantomeno da parte degli appassionati. Così come il nostro forum propone di anno in anno un thread sul percorso del Giro dell'anno successivo, lo stesso avviene con gran parte dei forum stranieri dedicati al ciclismo, che ogni anno attendono con trepidazione la presentazione di un percorso che risulta quasi sistematicamente il migliore rispetto agli altri 2 Grandi Giri.
Date queste premesse non si capisce l'esigenza, già emersa di tanto in tanto e completamente esplicitata nel 2022, di scimmiottare quanto viene proposto da Tour e Vuelta, il cui organizzatore, ASO (tramite Unipublic nel caso specifico della Vuelta), è senza dubbio più intenzionato a gettare fumo negli occhi degli spettatori spettacolarizzando tutto, anche le scelte palesemente rivolte a fare guarire l'insonnia di qualche appassionato. Esemplare sotto questo punto di vista l'esperienza della Planche des Belles Filles, salita inizialmente nuova e apprezzata dagli appassionati, che ha finito per essere riproposta talmente tanto da venire inflazionata. Per rilanciarla, nel 2019, si è pensato bene di allungare la salita verso la seguente rampa sterrata da ribaltamento, con l'unico effetto di essere temuta da tutti e addormentare una tappa che altrimenti era concepita molto bene. Quando tutti pensavano che l'idea potesse essere sepolta all'istante (la cronometro del 2020 finì con il traguardo tradizionale) ecco che la ritirano fuori per il 2022 con il nome altisonante di Superplanche. La solfa è la stessa, ma ai meno attenti si sono inspiegabilmente illuminati gli occhi.
Voi direte "e tutto questo che c'entra col Giro?". Beh, diciamo che questa storia ci ricorda moltissimo le scelte operate macroscopicamente sul Giro d'Italia di quest'anno: tanto (forse troppo) dislivello distribuito non benissimo, tappe per velocisti più lunghe di quelle di montagna e un unico spauracchio piazzato sul finale, ovvero il Fedaia. Ecco che dopo venti giorni di poco e niente (quantomeno da parte degli uomini di classifica), con la nobilissima eccezione della tappa di Torino, Vegni ha avuto comunque il coraggio di dirci "avete visto che alla fine qualcosa è successo?". Se qualcuno stava cercando la definizione del termine "vueltizzazione", dopo queste poche righe dovrebbe già aver capito di cosa si tratta.
Non ce ne voglia il buon Mauro, ma dopo anni di percorsi ben riusciti - seppur ognuno con qualche difetto - non si è capito perché abbia improvvisamente gettato al vento l'identità del Giro per tirare fuori un percorso che non sembra nemmeno prodotto dalla stessa persona. Per cui se l'anno scorso per primi dicemmo che aveva messo in piedi un bel Giro (e come negarlo dopo la stupenda ventesima tappa che con un disegno da manuale permise alla Bahrain di tentare il colpaccio?) quest'anno ci permettiamo una tiratina di orecchi.
E ora analizziamo in cinque punti cosa non andava con il percorso di quest'anno o, più in generale, quali devono essere i punti fermi per mettere in piedi un buon percorso di tre settimane.
I - Servono cronometro
È vero, veniamo da un'epoca passata, ma tutto sommato recente, in cui le cronometro risultavano fin troppo decisive, in particolare al Tour de France. Ma ricordiamoci sempre che se Pantani nel '98 non avesse dovuto recuperare oltre 5' a Jan Ullrich, nonché guadagnarsi un margine di sicurezza in vista della cronometro finale, non ci sarebbe stato bisogno di attaccare ogni singolo giorno per vincere quel Tour. L'esempio è altisonante, forse paradossale perché Pantani non era corridore da volatina agli ultimi 3 km, ma probabilmente abbastanza noto a tutti per spiegare il concetto. Se avessimo avuto una cronometro lunga (come è successo quasi sempre) destinata a regalare svariati minuti di margine ad Almeida, tutti sarebbero stati costretti a muoversi con più forza, perché staccarlo di pochi secondi non sarebbe mai stato sufficiente. In questo senso possiamo citare il Giro d'Italia del 2017, in cui il vantaggio accumulato da Dumoulin costringeva Nibali e Quintana ad attaccare in continuazione durante l'ultima settimana, nonostante le tappe di montagna non fossero esaltanti. Oppure il Giro d'Italia del 2019 in cui lo stesso Carapaz ha messo in piedi un paio di azioni da manuale con cui è andato in maglia rosa a Courmayeur e Nibali ha azzardato un attacco subito dopo l'imbocco del Mortirolo, tutto questo con il risultato di far rimbalzare Primoz Roglic e sottrargli il vantaggio conquistato a cronometro.
Detto questo, è importante anche la collocazione: senza dubbio se il percorso del 2021 aveva un difetto era quello di avere una sola cronometro realmente incisiva posta all'ultima tappa. La miglior cosa sarebbe fare una cronometro "old style" intorno a metà Giro (magari alla seconda domenica, visto che è una prova molto appetibile per il pubblico in strada) proprio come fu a Montefalco nel 2017 o a San Marino nel 2019.
II - Servono km (e ben distribuiti)
Da qualche anno è nato il falso mito che se facciamo tappe più corte ne guadagna lo spettacolo, altra fake news incentivata da ASO. Ben vengano tappe brevi ed intense (che però esistevano anche negli anni '70, è bene ricordarlo), ma queste vanno sempre alternate ai tradizionali tapponi che non sono desueti ed anacronistici, bensì sono l'elemento che da circa un secolo contraddistingue (o almeno dovrebbe farlo) i Grandi Giri. Citiamo giusto due tappe che per motivi diversi sono nella memoria di tutti, andando a ritroso: Merano-Aprica 1994 (196 km con Stelvio, Mortirolo, Aprica e Santa Cristina per quasi 5000 metri di dislivello) e Cuneo-Pinerolo 1949 (254 km con Maddalena, Vars, Izoard, Monginevo e Sestriere per oltre 4500 metri di dislivello). Se Coppi è stato in grado di fare una fuga solitaria su un percorso così impegnativo nel '49, con strade molto meno scorrevoli, bici molto meno leggere ed avanzate, alimentazione e medicina sportiva ancora quasi completamente da scoprire, vogliamo davvero assecondare situazioni ridicole come quella di Morbegno del 2020?
A tal proposito potrebbe essere quanto mai intelligente, proprio per evitare polemiche, ridurre i chilometraggi laddove non sono prettamente necessari, ad esempio limitando tappe di trasferimento inutilmente lunghe che annoiano lo spettatore a favore di un allungamento delle tappe di alta e media montagna. Sempre parlando di scelte intelligenti ci viene in soccorso il punto I: più cronometro ci sono all'interno delle tre settimane, minore è il chilometraggio complessivo; ergo se ci sono più cronometro si possono fare tappe più lunghe rispettando comunque i limiti complessivi imposti dai regolamenti UCI.
Ad ogni modo ricordiamoci sempre che il ciclismo su strada (ancor di più nei Grandi Giri) è uno sport di resistenza e tale deve rimanere. Se vogliamo corse più brevi ed intense ci stanno già il ciclocross e la corsa a punti. Crediamo di non sbagliare dicendo che nessuno ha mai chiesto di fare maratone di 10 km.
III - Serve varietà
In questo il Giro è già da tempo un passo avanti e in questo senso la novità dei circuiti cittadini è stato uno dei colpi meglio riusciti del 2022. Serve varietà nella tipologia delle tappe, che devono rispecchiare la completezza richiesta ad un corridore in grado di vincere un Grande Giro: già abbiamo detto delle cronometro, ma non devono mancare tappe di difficoltà variegata (sia che siano tapponi appenninici come quello di Potenza, sia che siano tappe dei muri marchigiani), magari le strade bianche sempre affascinanti e in grado di riportare il ciclismo indietro di alcuni anni. Insomma non per forza si deve puntare tutto sulla dicotomia cronometro-salita, ma anche aprire il ventaglio degli scenari tattici, scelta che potrebbe rivelarsi utile specialmente in quest'epoca con Van Aert e Van der Poel in giro.
La varietà è un concetto anche ascrivibile alle stesse tappe di montagna: quest'anno quasi tutte le tappe di montagna terminavano in vetta, o subito dopo la salita più impegnativa. Questo significa limitare il campo dei pretendenti ad un unico tipo di corridore e soprattutto favorire dinamiche di processione alle spalle dei treni. Ma di questo parleremo più ampiamente nel prossimo punto.
IV - Collocazione delle salite
Ci sono salite che in qualunque tratto della corsa a qualunque ritmo fanno male. Queste salite vanno valorizzate, ed usarle sempre come salita finale (come è accaduto quest'anno) è semplicemente controproducente. Gavia, Stelvio, Mortirolo, Fedaia, Giau, Finestre, Agnello, Fauniera. Giusto una carrellata casuale di salite che ci hanno già dimostrato in passato di essere sufficientemente dure da non doverci spaventare a metterle lontane dal traguardo. È evidente che non devono stare in avvio di tappe che poi non propongono più nulla, ma porle come penultima salita, oppure salite di apertura di una concatenazione di ascese meno impegnative incentiva lo spettacolo e gli attacchi da lontano (sempre che ci sia stata una cronometro che ha posto gli scalatori in svantaggio). E così pensiamo all'Agnello nel 2016, al Finestre nel 2018, allo Stelvio nel 2020 e a tutti i passaggi sul Mortirolo (2008 escluso).
Porre l'arrivo dopo la salita totem narcotizza la tappa e scoraggia gli attacchi da lontano, anche un po' per paura; se invece la salita più dura viene prima lo scalatore è comunque costretto a sfruttarla se vuole fare la differenza, quindi difficilmente andrà sprecata. Quest'anno si è toccato l'apice ponendo la salita più dura di tutto il Giro come ultima asperità della 20a tappa, con il risultato di narcotizzare non solo la tappa stessa, ma l'intero Giro d'Italia. Per intenderci, sabato l'arrivo (potendo scegliere) andava messo dopo un secondo passaggio sul Pordoi, come avvenuto nel 2001. E magari la tappa del Fedaia andava collocata prima all'interno delle tre settimane, ma di questo parliamo nel punto V.
V - Collocazione delle tappe
Un altro dei problemi di questo Giro d'Italia era il modo in cui le tappe erano disposte: molte frazioni prese a sé potevano essere interessanti, ma erano quasi tutte collocate nel giorno sbagliato. Per controparte a quanto detto prima ci sono salite che non sono sufficientemente impegnative per stimolare azioni e che forse sarebbe bene evitare oppure collocare negli ultimissimi giorni, dove si sa che anche un cavalcavia può scavare distacchi importanti. In questo senso ci viene in soccorso la tappa mutilata del Sestriere del 2020, dove bastò un triplo passaggio sul passo piemontese, sicuramente niente di drammatico, per mettere in scena una battaglia più che degna per un gran finale.
E allora se quest'anno avessimo invertito Cogne con il Fedaia, non sarebbe forse cambiato tutto? Una tappa apparentemente meno accattivante se collocata come ultima chance può comunque essere spettacolare, soprattutto se ci sono già state altre tappe che hanno scavato distacchi importanti. Pensando al Giro appena concluso, se avessimo avuto il Fedaia a scrivere una classifica ben delineata già prima della terza settimana, avremmo avuto tutta la settimana maggiormente sbloccata tatticamente e magari qualcuno avrebbe provato l'ultimo assalto anche nella tappa di Cogne. Vi ricordate López che provò ad andare via sul Manghen nel 2019 con oltre 100 km da percorrere?
C'è da dire prima di chiudere che ovviamente la collocazione delle tappe riguarda anche quelle che potremmo definire "trabocchetto": se la stupenda tappa di Torino, anziché essere il giorno prima di Cogne fosse stata il giorno prima del Fedaia, tutti sarebbero rimasti fermi in gruppo per cautela. Non abbiamo la sfera di cristallo, ma non avendo vincoli geografici e fantasticando avremmo dovuto mettere l'arrivo sul Fedaia alla 14a tappa per aprire le danze e la tappa di Torino come 15a con il giorno di riposo alle porte, quindi nessun timore in merito al recupero dello sforzo.
Appendice
Ovviamente non possiamo non chiudere con una punta di sano realismo. Sappiamo bene che disegnare il percorso del Giro d'Italia è complicato, perché non si può andare dove si vuole, ma si devono rispettare le richieste di tutti quelli che pagano, nonché tenere conto di infinite esigenze logistiche. Proprio la tanto vituperata tappa del Fedaia purtroppo era la soluzione più logica tra le opzioni che RCS aveva a disposizione: da un lato si doveva transitare nei luoghi della tappa mutilata di Cortina dell'anno scorso per risarcire il taglio, dall'altro si doveva accontentare la Regione Veneto che aveva legittimamente pagato fior di quattrini per avere l'arrivo nel proprio territorio. Capite bene che non ci fossero molte alternative. Questo per dire che molto spesso le scelte non sono dettate solo dagli aspetti tecnici, bensì da quelli che potremmo definire "aziendali". Ecco perché confidiamo nel fatto che il percorso di quest'anno fosse dettato da necessità imprescindibili, rimanendo dunque un'eccezione che conferma la regola.
Siamo sinceramente convinti che sia troppo presto per annunciare il disastro. Ma intanto speriamo che ognuno si sia accorto di cosa c'è realmente in ballo.