Remco il nuovo Merckx? Basta non sia il nuovo Cunego!
Attenzione, nessuno vuole dileggiare il giovane belga né confrontarlo con il veronese quanto, semmai, con l’equivoco che li accomuna: considerarli corridori da gare a tappe
DISCLAIMER: in questo articolo nessun remcoevenepoel verrà maltrattato, né tantomeno sbeffeggiato!
Affacciatosi al professionismo con le stimmate del predestinato, dopo aver fatto polpette dei coetanei tra gli juniores e avendo vinto, al primo anno da grande, una corsa di peso come la Clásica de San Sebastián, Remco Evenepoel è stato etichettato praticamente da subito come “il nuovo Merckx”. Un parallelo alimentato certamente anche dalla comune nazionalità, e dalla spasmodica attesa che in Belgio si consumava, ormai da decenni, per la discesa in terra di un corridore capace di emulare le gesta del Cannibale. E che lo facesse, soprattutto, nelle grandi gare a tappe, dove quello che è il movimento faro del ciclismo mondiale era inopinatamente a secco dal 1978, e cioè dal Giro d’Italia di Johan De Muynck.
Un digiuno ultraquarantennale a cui proprio Remco, lo scorso anno, è stato capace di porre fine conquistando la Vuelta a España davanti ad Enric Mas e Juan Ayuso. Impresa non certo banale per un qualsiasi altro corridore di 22 anni, ma ritenuta quasi scontata nel caso di specie, alla luce dell’indiscutibile e sconfinato talento di cui dispone Evenepoel. Vale la pena ricordare quanto già vinto in meno di cinque stagioni da professionista, passando pure per il terribile incidente del Lombardia 2020 che ne avrebbe potuto stroncare sul nascere la carriera?
Sì, vale la pena, appunto perché qui nessuno si sogna neanche minimamente di mettere in discussione il valore di un corridore fuori dal comune che, ad un’età in cui di solito si applaudono ragazzi capaci di vincere una corsa minore o di strappare un piazzamento in top ten a livello World Tour, ha già messo in saccoccia, oltre alla Vuelta di cui sopra, un mondiale in linea, un altro a cronometro, due Liegi-Bastogne-Liegi, tre Clásicas de San Sebastián, un titolo europeo contro il tempo e numerose altre vittorie assortite, tra corse di un giorno, tappe e piccoli giri.
Un fenomeno vero, insomma, e non solo quando è splendidamente in sella alla sua bici, ma anche per la capacità di far parlare di sé in qualsiasi circostanza. E però, anche un ragazzo che deve fare i conti tutti i giorni con quel paragone, impossibile, con il ciclista più forte di tutti i tempi. Se non, in assoluto, con lo sportivo più dominante della storia. Peraltro ancora vivo e vegeto e, in quanto vivo, anche parlante; e, spesso, giudicante le prestazioni del ragazzo. Il tutto in un paese, il Belgio, che di ciclismo vive, e che di ciclismo parla e scrive tutti i giorni in tv, alla radio, sui giornali, e naturalmente online: social compresi, dove i filtri, come sappiamo, sono pari zero.
Tutto questo per dire cosa? Che il rischio di bruciarsi, di uscire di testa, di perdere qualsiasi contatto con la realtà, è sempre dietro l’angolo. Che quindi bisogna andarci piano con certi paragoni, aspettative, pretese. E valutare le prestazioni del corridore gara per gara, senza gettare fango addosso a colui che fino al giorno prima si incensava. Tanto più al cospetto delle clamorose prestazioni che Remco sa tirare fuori dal cilindro nella giornata secca, quando spesso è davvero ingiocabile per chiunque, perfino per un Pogačar o un Van der Poel (per quanto gli scontri diretti, curiosamente, per un motivo o per l’altro siano stati fin qui rarissimi). Prestazioni che, proprio perché difficilmente ripetibili per più di una manciata di giorni nell’arco di una stagione, fanno poi sembrare ancora più stonati gli scivoloni.
Impossibile aspettarsi che Evenepoel sia ogni giorno quello di Liegi, o magari di Wollongong. Impensabile chiedergli di replicare quello stile di gara in una corsa di tre settimane, in cui la distribuzione degli sforzi è essenziale al conseguimento del risultato finale. Perché certo, con i numeri che si ritrova potrebbe anche pensare di terremotare la classifica attaccando i rivali diretti a cento chilometri dall’arrivo in una tappa di media montagna tagliata sulle sue caratteristiche, e magari potrebbe anche riuscire nell’impresa. Ma poi? Con quali energie affronterebbe le frazioni restanti? Il fatto che Remco ci abbia abituato a correre spesso “come se non ci fosse un domani”, non deve mai farci dimenticare che nelle gare a tappe invece c’è eccome, “un domani”: e pure un dopodomani, un domani l’altro e così via. Per cui, ecco spiegato il modo ben più sparagnino in cui il nostro, giustamente, si cala nell’interpretazione di un grande giro.
Il problema, però, è che correndo in modo “normale”, Remco perde la sua unicità e, con essa, quella che è la sua vera forza, l’arma-fine-di-mondo con cui è capace di mandare tutti al tappeto in una classica. Mettiamoci anche che la sua impareggiabile aerodinamica, così redditizia a cronometro e sui percorsi misti, torna molto meno utile in salita, quando si scende sotto i venti all’ora e la resistenza al vento diventa secondaria rispetto ad altre doti. Doti di cui, evidentemente e senza che nessuno gliene possa fare una colpa, Remco è meno provvisto rispetto ai grandi interpreti delle gare a tappe.
Affermare che Evenepoel non è un grande scalatore non è lesa maestà. Rilevare che, nel suo rapporto con grandi e piccoli giri, la Vuelta vinta 2022 rappresenta un’eccezione anziché la regola, nemmeno. Perché lo storico del belga nelle gare a tappe ci parla già di numerosi passaggi a vuoto: quello della scorsa settimana tra Aubisque e Tourmalet è stato il più eclatante, certo, ma anche al Giro 2021 Evenepoel era prima rimbalzato, nella frazione dello sterrato, e poi definitivamente affondato nel tappone, pur decurtato causa maltempo, del Giau.
Si dirà che quello era ancora un corridore convalescente dalla paurosa caduta del Lombardia cui già abbiamo accennato – ed è vero – però che dire della scoppola presa alla Tirreno-Adriatico dello scorso anno nel giorno del Carpegna, quando beccò quattro minuti da Pogačar, tre da Vingegaard e Landa, due e mezzo da Porte e più di un minuto da diversi altri, battuto anche da un Pozzovivo tenuto insieme con lo scotch? E venendo a questa stagione, anche sorvolando sul Giro bruscamente abbandonato per il Covid-19, che dire del titubante Giro di Svizzera in cui, startlist alla mano, pareva non avere avversari, e che invece lo ha visto “soltanto” terzo avendo spesso perso le ruote, in salita, dei vari Skjelmose, Ayuso o perfino di Gall?
Se analizziamo le brevi corse a tappe vinte da Evenepoel – dal Polonia 2020 allo UAE Tour 2023, passando per le doppiette in Algarve e in Belgio, per la Vuelta a Burgos e per i giri di Danimarca e Norvegia – non si è mai dovuto misurare con salite particolarmente lunghe o impegnative, e fatichiamo a trovare una corsa in cui, per imporsi, gli sia stato necessario fare la differenza in più di una frazione in linea. Al giovane capobranco del Wolfpack, infatti, di solito è bastato azzannare gli avversari con un solo attacco bene assestato e poi, magari, sistemare le cose a cronometro, o viceversa. E per carità, stiamo parlando comunque di numeri d’alta scuola, ma non di quello che serve a diventare cannibali anche nelle gare a tappe. Perché se pure in quelle di una settimana, spesso, è capitato di vederlo in difficoltà alla seconda o terza giornata consecutiva di battaglia e, comunque, sui percorsi altimetricamente più impegnativi, non devono poi stupire i ko rimediati sulle strade del Giro o di questa Vuelta.
Proprio questo ci appare un limite, per così dire, strutturale, di Remco Evenepoel: non già psicologico, come molti hanno ipotizzato, perché la furente reazione sfoderata ventiquattr’ore dopo la cotta pirenaica ci dice di un corridore mentalmente fortissimo e che, semmai, se certe volte tira i remi in barca in maniera così palese, lo fa per il troppo orgoglio, perché la testa gli dice che non è il caso di remare controcorrente nella tormenta, quando le altre barche sono già scappate. E tutto sommato, il ragionamento ci sta tutto: una volta perse le ruote dei migliori sull’Aubisque, con ancora tutto lo Spandelles ed il Tourmalet da scalare, che senso avrebbe avuto tenere duro per arrivare, comunque, con sei o sette minuti sul groppone? Bene ha fatto Remco, a quel punto, a correre di conserva fino al traguardo e riprogrammarsi subito su nuovi obiettivi: andando a prendersi, già all’indomani, la tappa di Larra-Belagua nel modo in cui abbiamo visto, e mettendo nel mirino la maglia a pois, in luogo di quella roja, continuando ad attaccare a ripetizione nei giorni seguenti, fino al punto, dopo l’ennesimo successo parziale strappato oggi, di iniziare ad insidiare perfino la maglia verde di Groves.
Una capacità di reazione fenomenale almeno quanto le doti tecniche e atletiche, perché di solito, quando un corridore prende una batosta del genere, è pronto ad accampare scuse (un attacco di cagotto o una botta d’influenza da addurre a giustificazione, in questi casi, non si negano a nessuno) e ad uscire di scena, magari avendo l’accortezza di trascorrere un altro paio di giorni nelle retrovie del gruppo, per poi salutare tutti e andare a casa. Ecco, Remco non ha fatto niente di tutto questo, a riprova del fatto che la testa c’è ed è anche parecchio dura, in senso buono. Ma, forse, sono le gambe a non essere altrettanto solide, quando si tratta di pedalare per tre settimane o, più in generale, di recuperare da sforzi prolungati e ripetuti.
E allora, torniamo al paragone da cui eravamo partiti, quello con Merckx, e accantoniamolo. Perché è un altro il parallelo che ci viene in mente, e che non riguarda tanto le caratteristiche dei corridori in questione, quanto la situazione che li accomuna. È a Damiano Cunego che pensiamo, e all’equivoco che ne ha segnato – se non, addirittura, condizionato – l’intera carriera: quello di ritenersi, lui per primo, un corridore da grandi giri. E quindi di avere continuato, per anni, a cercare di far classifica. Finendo, inevitabilmente, con l’essere giudicato sulla base dei magri risultati raccolti proprio sulle tre settimane, più che per le tante e pesanti vittorie raccolte nelle corse di un giorno.
Perché non sono stati tanti i contemporanei di Cunego a potersi fregiare dei suoi risultati nelle prove in linea: tre monumenti (i Lombardia 2004, 2007 e 2008), un’Amstel e altre semiclassiche di per sé minori ma che, messe l’una in fila all’altra ed associate agli scalpi più importanti – oltre che al secondo posto al mondiale di Varese 2008, il terzo alla Liegi 2006 e ad altri piazzamenti – ne fanno uno dei più forti cacciatori di classiche della sua generazione. Che però, oggi, è ricordato sostanzialmente come un perdente o, nella migliore delle ipotesi, come una promessa non mantenuta.
E qui veniamo all’altro elemento comune a Cunego ed Evenepoel: la precocità. Vincere tanto e bene da giovanissimi non significa che la carriera proseguirà necessariamente ai massimi livelli per altri dieci o quindici anni. Anzi: spesso ad una curva di crescita anticipata corrisponde un declino altrettanto prematuro, perché confermarsi al vertice mondiale per più di sette-otto anni è difficilissimo, dal punto di vista mentale prima ancora che atletico. E perché, semplicemente, se a vent’anni sei già al livello dei migliori, i tuoi ulteriori margini di crescita saranno per forza più risicati rispetto a quelli della maggior parte dei tuoi coetanei.
Quel Giro d’Italia vinto da Damiano a 22 anni e nove mesi, con il senno di poi, ha finito dunque per distorcere la valutazione che tifosi, media e probabilmente anche il diretto interessato hanno dato del prosieguo della carriera. Auguriamoci che non accada altrettanto a Remco, curiosamente vincitore della scorsa Vuelta alla stessa identica età in cui il Piccolo Principe si vestì di rosa, salvo non tornare mai più a indossare quella maglia così ambita.