Il Giro non ha niente da invidiare al Tour...
...nel senso che non deve essere geloso del successo della Grande Boucle: perché se la corsa più famosa è anche la più spettacolare, a guadagnarci è tutto il ciclismo. Che in troppi (a torto) considerano ancora uno sport noioso
Per anni ci hanno raccontato che il Giro d’Italia è “la corsa più dura del mondo nel paese più bello del mondo” e che il Tour de France, invece, è sì ricco e potente, ma anche tremendamente noioso. E fino a pochissimo tempo fa era proprio così: dall’èra Armstrong a quella Sky, sono state tantissime le edizioni della gara a tappe francese dipanatesi per tre sonnacchiose settimane senza alcun colpo di scena, e puntualmente risoltesi secondo i pronostici della vigilia. Certo, c’è stata qualche eccezione – pensiamo soprattutto al Tour 2003, in cui Ullrich arrivò vicino come non mai allo spodestare il Cow Boy, o a quello 2011, in realtà tra i più soporiferi in assoluto, ma sublimato da un’esaltante tre giorni finale – così come ci sono stati Giri d’Italia sottotono o deludenti.
Da quando però, in Francia, si sono presi la scena Tadej Pogačar e Jonas Vingegaard, anche la bilancia dello spettacolo ha iniziato a pendere decisamente a favore del Tour, e le ultime due, controllatissime edizioni del Giro, di certo, non hanno aiutato a reggere il confronto con la bellezza di quanto visto oltralpe. In tutto questo, poi, i percorsi contano fino ad un certo punto: perché è verissimo che proprio lo svolgimento delle ultime due edizioni della Corsa Rosa è stato pesantemente condizionato dalla scelta degli organizzatori di concentrare le difficoltà maggiori negli ultimissimi giorni (il Fedaia nel 2022, l’accoppiata Tre Cime e cronoscalata al Lussari quest’anno), dando così ai corridori almeno 18-19 tappe di buone ragioni per restarsene nella loro comfort zone, ma è proprio l’essenza stessa dello scontro totale tra Pogačar e Vingegaard a fare la differenza. Al punto che se anche tutto il Tour si corresse in autostrada, con lo sloveno ed il danese a contenderselo continuerebbe a risultare più spettacolare rispetto a qualsiasi combinazione di percorso tentata dal Giro.
Stante, poi, la disparità di potere mediatico, politico e finanziario oggi esistente tra Grande Boucle e Corsa Rosa, pensare di vedere a breve i due fenomeni darsele di santa ragione anche sulle nostre strade è pura utopia. Tutt’al più potrebbe essere Pogačar a calare in Italia, magari già nel 2024, considerato l’approccio praticamente unico dello sloveno a questo sport, che lo sta portando a cercare di misurarsi, ogni anno, in sfide sempre nuove. E intendiamoci: avere anche solo Tadej in gruppo, per il Giro d’Italia, sarebbe tantissima lana, ma il rischio di assistere ad un suo noiosissimo monologo in rosa, senza alcun contendente capace di tenere desta l’attenzione del pubblico non diciamo per tre settimane, ma probabilmente nemmeno per una decina di giorni, sarebbe parecchio elevato.
E dunque, che fare: cercare ugualmente di arrivare al grande nome, o puntare su una corsa il più possibile battagliata? Non potendosi permettere l’una e l’altra cosa insieme, il Giro, al momento, sembra di fronte ad un bivio in cui entrambe le strade conducono ad una dolorosa rinuncia. Uno scenario frustrante, che non ci lascia altra scelta che rosicare al pensiero di quanto stiano meglio i nostri cugini francesi.
O forse no. Forse, c’è una terza via: ed è quella di smetterla di paragonare ossessivamente il Giro d’Italia al Tour de France, e di iniziare a goderci spassionatamente lo spettacolo che in questi ultimissimi anni emana dalla Grande Boucle. Senza provincialismi, e rendendoci conto una volta per tutte che, sia pure indirettamente, il bene del Tour rappresenta il bene di tutto il ciclismo. Perché nel momento in cui la corsa nettamente più rappresentativa e seguita al mondo diventa anche una delle più appassionanti e incerte e combattute e spettacolari, questo non può che rappresentare un enorme volano mediatico per l’intero movimento. Di cui, a cascata, tutte le altre corse non potranno che beneficiare.
D’altra parte, che ce ne siamo fatti di tutti questi anni in cui lo spettacolo del Giro ha spesso surclassato quello del Tour? L’appeal internazionale della Corsa Rosa è forse cresciuto, più di quanto non fosse già migliorato, se mai, grazie all’internazionalizzazione portata dal World Tour? E le gare in bici hanno forse sbancato gli share televisivi, in Italia o altrove? Non ci risulta. Né ci risulta che i campioni della passata generazione siano riusciti a bucare lo schermo, a diventare cioè personaggi trasversali e apprezzati dal grande pubblico come un Valentino Rossi o un Roger Federer. Mentre laddove non sono arrivati Froome, Nibali, Contador o Valverde, potrebbero invece riuscire proprio Pogačar e Vingegaard (soprattutto Pogi, ovvio, ma il danese è il migliore degli sparring partner possibili, perché costringe lo sloveno a superarsi e reinventarsi continuamente), vista la loro bravura ad approfittare appieno della principale vetrina mediatica della stagione.
E una volta risvegliato l’interesse degli spettatori generalisti grazie allo spettacolo del Tour, non dovrebbe essere poi molto difficile appassionarli anche alle gesta degli altri fenomeni odierni che già sono abituati a dispensare emozioni da febbraio ad ottobre – da Van der Poel a Van Aert, da Evenepoel a Pidcock e compagnia. Smettiamola, insomma, di considerare la popolarità del ciclismo come un gioco a somma zero, in virtù del quale una corsa costruisce il suo successo a scapito di un’altra. Smettiamola di desiderare una fetta della torta dei nostri vicini e iniziamo a pensare che, forse, grazie alle bontà sfornate dalla boulangerie francese, in futuro potrebbero esserci molti più dolci da vendere anche per i nostri forni, perché banalmente potrebbe esserci molta più gente golosa di assaggiarli.