Cari corridori, non voltate le spalle al senso del ciclismo
Il caso della tappa di Crans Montana riporta all'ordine del giorno la contrapposizione tra le legittime istanze di chi pedala e la ragion d'essere di uno sport che da sempre ha fatto della temerarietà la propria essenza
Per chi ama il ciclismo è difficile accettare quello che è accaduto nella tredicesima tappa del Giro d’Italia 2023: il taglio del percorso, in particolare del Gran San Bernardo, ha trasformato un vero tappone alpino in una frazioncina di 80 km; il tutto solo per il timore di condizioni meteo avverse, ma non certo estreme, poi nemmeno avverate. Senza dimenticare che è ancora vivo il ricordo dei fatti di Morbegno del 2020, una figuraccia dove i corridori costrinsero il direttore della corsa rosa ad accorciare una tappa per pioggia e “rigide” temperature, addirittura 13 gradi!
La questione dunque è chiedersi il perché di questi episodi. Com’è possibile che corridori abituati a sopportare fatiche, pietre, cadute, anche di correre centinaia di chilometri con fratture, veri fachiri, si espongano a queste brutte figure? Cosa sta succedendo? Il ciclismo sta vivendo un momento storico di grande cambiamento culturale e come ogni transizione anche questa è piena di contraddizioni, di grandi passi in avanti e di smarrimenti. Gli errori fanno parte del gioco, sono anche tollerabili se inseriti in un processo utile e giusto; ma bisogna capire anche perché questi avvengono, nemmeno così raramente.
È in corso un processo in cui lo sportivo è sempre più attento e partecipe nelle decisioni che lo riguardano nel suo lavoro/passione; una sindacalizzazione, una presa di coscienza politica che è un gran bene per l'atleta stesso e per lo sport nel suo complesso. Questo, unito, nell’epoca del passaporto biologico, ad una vera e propria rivoluzione nella consapevolezza del proprio corpo, non più solo semplice strumento di lavoro, troppo spesso in passato stritolato in una macchina infernale, comprato e prostituito, ma alla ricerca di benessere e salute pur nella pratica usurante di una disciplina sportiva di élite.
Questi cambiamenti, ancora alla fase iniziale, stanno creando nell’atleta una nuova sensibilità che inevitabilmente entra in contraddizione con un significato storico che lo sport ha sempre avuto. Il ciclismo in particolare vive di una narrazione fatta di avventura, di fascinazione per la fatica, con personaggi dai tratti caratteriali estremi; epica perfetta della forza dell’essere umano, epopea.
Nella storia del teatro delle corse in bicicletta il corridore è stato attore protagonista, ma mai davvero il drammaturgo di se stesso. Oggi chiede di esserlo, abbiamo un professionista, un lavoratore sempre più “politico”, che giustamente pretende spazio e diritto di parola e, dal suo punto di vista, mette in discussione il valore simbolico e storico del ciclismo.
Quindi è comprensibile che oggi il ciclista non sia più disponibile a scalare il Gavia innevato e buttarsi in discesa nel gelo verso Bormio come nel Giro del 1988, eppure il mito di quella tappa è ancora vivo, ispirazione di pagine scritte, canzoni e documentari. Il mito del Gavia '88 sopravvive, certo, ma dobbiamo essere coscienti che quello spettacolo fu una violenza, accettabile allora solo perché inserita in un racconto simbolico ed in un quadro di rapporti di forza che sembravano del tutto normali e scontati, laddove con il tempo anche le voci critiche sono state assorbite nella stessa narrazione.
Il sacrosanto diritto alla salute dei corridori entra inevitabilmente in conflitto con una caratteristica intrinseca del ciclismo, la temerarietà. Questo sport antico, che fatica a conquistare l’interesse nelle nuove generazioni, perché portatore di vecchi valori, non può perdere la sua anima avventurosa, a rischio è la sua stessa sopravvivenza. Fin dal primo Giro d’Italia, da quel 13 maggio 1909 alle 2.53 in cui la folla riempì le strade di Milano per assistere alla sua partenza, questa non era alla ricerca di uno spettacolo sportivo, di una semplice prova atletica, ma attratta dall’impresa, dal coraggio dei corridori, dal mito che stava nascendo davanti agli occhi di quel pubblico.
Oggi si corre il 106esimo Giro ed ancora desideriamo mitologiche narrazioni, prestazioni leggendarie, sfide al limite ed emozioni che provocano brividi lungo il corpo; tutte richieste legate ad un concetto e significato di sport che il corridore inizia a rifiutare. È questo conflitto, a mio parere, la ragione degli errori, della stessa difficoltà da parte dei protagonisti delle corse di farsi capire e far accettare il proprio punto di vista; è inevitabile, la “coscienza di classe” dell’atleta obbliga a mettere in discussione il significato profondo dello sport stesso, in un mondo non predisposto ad un cambio culturale e politico; quindi difficile trovare la quadratura di un cerchio.
Lo sport è un fenomeno culturale in evoluzione, se è nato ed esiste, è perché risponde ad un bisogno simbolico dell’essere umano, e se oggi emergono contro-narrazioni, che oltretutto arrivano dai protagonisti stessi, gli atleti, e che spingono in una direzione opposta a quella storica, allora è necessario capire se per esempio nel ciclismo queste contro-narrazioni mettano o no in pericolo la stessa esistenza di questo sport meraviglioso.
In questo i corridori devono stare attenti a non fermarsi al contingente, ma essere consapevoli che è necessario preservare la pura natura del ciclismo, fatto di fatica, avventura, temerarietà. È qualcosa che va oltre un protocollo per condizioni climatiche estreme, verso la scrittura di una nuova essenza sportiva, al cui centro siede l’essere umano in salute, pensante, con le sue fragilità ed abilità, non più un semplice bene di consumo, simbolo di produttività e nel mito del “superuomo”. Può sembrare un paradosso, ma è proprio la temerarietà del ciclismo ad esaltare la fragilità umana, a rendere epico un racconto. Senza avventura, che ciclismo sarebbe?
Oggi ci fermiamo davanti ad una previsione meteo, nemmeno azzeccata, domani davanti ad una discesa pericolosa, poi davanti ad una volata e pedalata in pianura in gruppo per rischio cadute, fino ad arrivare a correre solo sui rulli. Esagero, forse non troppo, ma senza aver chiaro il fine simbolico che ha il ciclismo per l’uomo, è impossibile tracciare una riga oltre la quale perde il senso di esistere il ciclismo stesso.
Prima di sedersi attorno ad un tavolo e mettere nero su bianco i valori limite oltre i quali ci si ferma (temperatura massima e minima, forza del vento, ecc.), è necessario aver chiaro che ciclismo vogliamo ed amiamo. Chi più dei monaci ciclisti sono in grado di capirlo? Diamo loro fiducia senza accusarli di vigliaccheria, mentre noi stiamo seduti sul divano.
I corridori hanno ragione a proseguire in questo percorso di autoconsapevolezza e presa di parola, così come hanno il diritto di commettere errori come quello di Morbegno o della cancellazione del Gran San Bernardo, ma in tutto questo processo non deve mai esser persa di vista la ragione d’essere di questo sport, quello spirito temerario che spinge l’essere umano a cercare se stesso in una corsa in bicicletta.