Canzone per Vincenzo
Poche righe in onore di chi ha segnato un'epoca inanellando oltre 50 successi, per lo più arrivando in solitaria, e illuminando gli occhi di grandi e piccini, scritte proprio da uno di questi (ex) bambini
Mi chiamo Francesco e sono nato il 5 dicembre del 2000. Bastano poche briciole di matematica per dedurre che quando Vincenzo è passato professionista io avevo appena compiuto 4 anni, età a cui tutto è ancora da scoprire. Ma il ciclismo lo avevo già scoperto: pochi mesi prima di vedere la luce, nel maggio del 2000, dentro la pancia di mamma, ero già all'Abetone per "assistere" all'assolo di Casagrande; poi nel 2002 fui sulle spalle di babbo ai piedi del Mont Ventoux per vedere il Tour; nel 2004 ero nel passeggino dietro alle transenne nella Foresta di Arenberg e nel 2005 ho visto il Giro in ben tre tappe. Fin qui si tratta solo di memorie ricostruite fotograficamente, che vengono piano piano scalzate dai primi ricordi molto labili
I primi sono proprio dei flash, dei nomi: Pérez Cuapio, Parra Pinto, Petacchi vs McEwen, ovviamente Bettini. Poi si fanno più distinti: Basso con la foto del figlio sull'Aprica; Di Luca che urla a Gasparotto al termine della cronosquadre del Giro d'Italia 2007 (dove peraltro esordì Nibali vincendola con loro). Quindi fu il momento dell'arrivo della nuova generazione, Schleck e Contador davanti a tutti. La prima tappa che ricordo quasi nitidamente è quella di Monte Pora del Giro d'Italia del 2008 dove Savoldelli e Di Luca provarono a ribaltare la classifica in discesa (e Nibali nonostante non me ne rendessi conto era con loro), accoppiata ad un più offuscato ricordo della crisi di Di Luca il giorno dopo sul Mortirolo. Non può non essere nitida la fucilata di Ballan a Varese e poi molto nitido è il Giro del 2009, perché, se non si fosse capito, su Di Luca ci contavo molto.
Dati causa e pretesto, arriviamo al dunque.
A luglio il Tour prese il via da Montecarlo con una cronometro particolarmente tecnica: Bulbarelli si lamentò che Nibali non venisse inquadrato dalla regia francese; tutti i torti non li aveva, dal momento che chiuse la cronometro al nono posto. Io ancora non sapevo esattamente chi fosse, quanto andasse forte o che viso avesse, sapevo solo come si chiamava. D'altronde fino all'anno precedente i media si erano concentrati su Riccò che a onor del vero, con estrema sincerità, non mi ispirava particolare simpatia già prima delle varie deprecabili vicende che ne hanno segnato la carriera.
Intanto il Tour de France proseguiva: Nocentini tenne la maglia gialla per una settimana, distogliendo l'attenzione di noi italiani (e per di più toscani) dalla vera lotta per la classifica generale. Poi arrivò la mazzata: in diretta Bulbarelli fu costretto ad annunciare la positività di Di Luca in due tappe dell'ultimo Giro d'Italia. Vedermi crollare il corridore di riferimento (parlo a livello personale) di quegli ultimi 3 anni fu a suo modo un lutto: Simoni era anziano, Basso era appena tornato dalla squalifica, su Cunego non c'è bisogno di dire niente e nemmeno io mi sentivo tanto bene (tifosisticamente parlando). Intanto Nibali stava ancora lì, un po' nascosto, che aspettava di essere visto, scovato. Sapevo che era secondo nella classifica dei giovani, sapevo che era in top10, ma se oggi dovessi ripensare a quel Tour non ricordo niente di Nibali, nemmeno il terzo posto sull'arrivo in salita di Verbier. Ricordo la situazione in "stile Movistar" dei fratelli Schleck, ricordo Armstrong, ma non ricordo Nibali. Mi si è palesato soltanto alla 20esima tappa, sul Mont Ventoux.
[Perdonate l'incoerenza sintattica, ma nelle prossime righe serve il presente indicativo per rendere cinematograficamente il momento].
Prima di Chalet Reynard parte Schleck. Come un'ombra arriva subito Contador. Poi arriva Nibali. Prima lo sconcerto. Quindi il colpo di fulmine. Mi si sono illuminati gli occhi e tuttora ho i brividi (se non addirittura qualche lacrima) se ripenso a quel fugace istante di puro ciclismo. Avevo 8 anni e mezzo e nessuna competenza tecnica, soltanto una passione sfrenata, Cycling Manager 4 e gli atlanti per disegnare i percorsi del Giro d'Italia sulle agende. Schleck si volta, vede che non c'è il fratello Frank e si ferma. Nibali arriva nono, settimo tra i big. E sarà settimo pure in classifica a Parigi.
Da quel momento non sono più stato lo stesso. Il ritorno di Basso e Scarponi ad alti livelli concretizzatosi nel 2010 fu una nuova certezza e vedere Nibali in mezzo a loro due fu l'apoteosi, anche per il modo in cui si svolsero le ultime tappe all'insegna del lungo ribaltone sull'improbabile Arroyo. Indimenticabile l'attacco in discesa dal Monte Grappa in cui Savoldelli sembrò consegnare lo scettro mentre commentava dalla moto ricordando proprio quella giornata del 2008 giù dal Vivione, di cui io ricordavo Savoldelli e Di Luca ma non Nibali. Poi fu il turno dell'Aprica, tappa che porto nel cuore con altri brividi ed altre lacrime di nostalgia fosse anche solo per il fatto che alle spalle non c'erano solo italiani, ma pure Evans in maglia iridata, Sastre vincitore del Tour del 2008 e Vinokourov. Per la prima volta mi sono detto che forse un Tour lo avrei visto vincere a un italiano.
Ben presto Nibali vinse la Vuelta, la prima Vuelta che io ricordi nitidamente. Da qua in poi lo Squalo ha semplicemente scandito la mia adolescenza facendomi capire passo per passo di cosa avesse bisogno il ciclismo. Ricordo tutto per filo e per segno, tutte le chiacchere con gli amici, tutti gli istanti. I mille attacchi sul Poggio, l'azione folle sul Ghisallo al Lombardia del 2011. Quindi il 2012 con la vittoria in Oman, la Tirreno, lo scatto alla Sanremo, la tragedia della Liegi e poi il Tour. E soprattutto mi ricordo di quando in fondo alla discesa del Menté Nibali era entrato nella fuga del mattino per provare a ribaltare la corsa ma fu costretto a fermarsi da logiche di fredda diplomazia, incarnate soprattutto da Valverde che poi quella tappa la vinse, a Peyragudes. Ancora non sapevo chi fosse Claudio Lolli e cosa fosse Disoccupate le strade dai sogni, ma sicuramente in quel ciclismo non mi riconoscevo: il ciclismo del "non succede mai niente", delle cronometro sempre decisive, dello scattino all'ultimo km in cui predominava la squadra più organizzata e scientifica, non certo la personalità più spiccata. Di politica non ci capivo ancora niente (ammesso che ora ne capisca qualcosa) ma ripensandoci credo che per me Nibali fosse una sorta di "zingaro felice", un piccolo rivoluzionario in mezzo ad un gruppo di ciclisti robotici e filogovernativi.
Ecco perché la Tirreno-Adriatico del 2013 sarà una delle corse più belle di sempre (almeno per me). Si scontravano Froome e Contador... e il vincitore uscente. Vincenzo arrivò terzo a Prati di Tivo, dietro Froome, ma davanti a Contador. Poi subì la piccola crisi di Chieti. Quindi arrivò martedì. Tornato a casa da scuola, mi attendeva la tappa dei muri, ma c'era anche l'allenamento, perché intanto anche io avevo iniziato a correre in bici. Tornato dall'allenamento mi ritrovai Nibali con Sagan in fondo alla discesa di Sant'Elpidio a Mare. Ribaltare la Tirreno in quel modo fu per me la causa dell'innamoramento definitivo. È superfluo ricordare il Giro trionfale, tanto quanto è inutile parlare dell'indignazione per la Vuelta persa da Horner, o la disperazione di quando, per la prima volta in vita sua, andò piano in discesa, al mondiale, nella mia Firenze.
Poi arrivò il 2014. Prima del Tour dissi ai miei compagni di squadra che se Nibali avesse voluto vincere il Tour avrebbe dovuto attaccare nella tappa di Sheffield e sul pavè. Arrivò quella domenica di luglio. Per tutta la diretta aspettai quel maledetto attacco seduto sul letto di camera mia: volevo vederla da solo quella tappa, concentrato senza che nessuno mi distraesse dall'unica priorità di quel pomeriggio. In cima all'ultimo muro mi arresi all'idea e mi sdraiai sul letto in attesa della volata... poi invece il colpo di mano mi fece alzare in piedi, sul letto. E dopo 2 km Nibali era in maglia gialla e la coperta del letto sgualcita. Il resto non importa nemmeno raccontarlo. Sono stati anni intensi che tutti ricordiamo e che per sintesi mi sento costretto a sorvolare.
Ma come non ricordare almeno un paio di frammenti. Ad esempio il Tour 2015, che fu un dramma, tanto quanto fu emozionante la rimonta degli ultimi giorni. È in quei pomeriggi di luglio che Vincenzo ci ha regalato quella che per me è stata la più bella tappa del Tour mai vista, a La Toussuire, quando lui attaccò con Scarponi già sulla prima salita, il Col de Chaussy, ad oltre 100 km dal traguardo per poi farne 60 in solitaria (a parte una breve compagnia di Rolland). Oppure come non ricordare quando a marzo 2018 ero in ritiro con la mia squadra e un accompagnatore se ne uscì dichiarando: "Nibali è finito". Fu smentito clamorosamente pochi giorni dopo a Sanremo per la gioia mia e del mio mezzo infarto.
Poi però si è spento tutto troppo in fretta, tutta colpa di quel maledetto Tour de France e di quella maledetta Alpe d'Huez che ha indelebilmente rovinato gli ultimi anni utili dello Squalo. Quello di quel giorno di luglio fu un trauma, di gran lunga peggiore rispetto a Firenze 2013 o Rio 2016.
"Se c'è ancora giustizia nelle dinamiche metafisiche dell'universo, spero che Lui (non serve fare nomi) sia capace di reggere ad alti livelli almeno un altro anno o due. La sfida gialla Froome-Nibali è stata rimandata fin troppe volte. Li voglio vedere faccia a faccia. Oggi mi sono esaltato come poche volte. Quando ho visto partire Froome con Nibali a ruota, mi sono venuti i brividi. Finalmente lo scontro tanto atteso. Poi è scomparso e con l'occhio del corridore avevo già visto che qualcosa era andato storto. Se fossi una persona più sensibile mi sarei messo a piangere". Così scrissi sul forum. Purtroppo quello scontro non ci sarà mai più. Rimarrà un sogno infranto.
Nulla potrà invece infrangere la mia consapevolezza su quanto con Nibali, per Nibali e grazie a Nibali si sia evoluto il mio rapporto con il ciclismo. Con Vincenzo fuori dal gruppo sarà tutto diverso. Difficilmente qualcuno potrà sostituirlo nel mio cuore di tifoso ed è giusto così: è finito il tempo del tifo smisurato; è ora di lasciare spazio all'occhio imparziale del giornalista.
Io adesso ho smesso di correre, ho un po' di esperienza in più, ma anche di disillusione. Non gareggio più ma faccio il direttore sportivo nelle categorie giovanili. So per certo che quando dovrò spiegare ad un mio atleta come si corre gli farò vedere cos'è stato Nibali, colui che ha sempre azzeccato il momento giusto, anche al Giro delle Fiandre (gambe permettendo). Perché un ciclista lo vedi dal coraggio, dall'altruismo, dalla fantasia. Non solo dalla potenza espressa in un test.
Nibali è ormai consacrato alla storia del ciclismo e io posso ringraziare Dio, o chi per lui, di avermi fatto vivere questa pagina di storia; posso ringraziarlo per avermi fatto capire cosa sia stato Gimondi per mio babbo; posso invece ringraziare Vincenzo di avermi fatto tornare bambino almeno per un altro pomeriggio al Giro di Sicilia dell'anno passato. Infine penso che tutti debbano ringraziare Vincenzo per aver tenuto vivo un certo modo di essere ciclisti: in fondo è forse anche merito suo se oggi abbiamo un ciclismo popolato di zingari felici che si stuzzicano tutto l'anno su ogni terreno.