Peter Sagan all'ultima tappa del Tour of Slovakia 2024 ©Marek Beneš
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Sul ritiro di Peter Sagan, o dell'uccidere le pretese

Il tre volte campione del mondo ha disputato ieri la sua ultima corsa su strada in carriera. Omaggio al corridore che non è mai stato quello che tutti avrebbero voluto

A noi piacerebbe vivere nel mondo delle favole a lieto fine, dei fuoriclasse belli e buoni che corrono per pura passione, quelli che salgono sull'Olimpo e scendono quando proprio ne hanno la pancia piena, giusto perché bisogna pur fare spazio anche agli altri. Il prode guerriero che, invecchiato, appenda al chiodo il carbonio sazio di successi, trasformi il telaio in falce e si dedichi a rustici passatempi incoraggiando con sagge paternali le future generazioni. Capita di immaginarci i campioni delle due ruote come uomini talmente soddisfatti dall'aver realizzato i propri sogni che poi tutto il resto non possa che venirgli facile.
 

Peter Sagan è stato un fenomeno che tutti, prima o poi, hanno amato: anche nell'epoca degli haters, impossibile che anche al più grande dei suoi detrattori non sia sfuggito un applauso nei suoi confronti di in una carriera così costellata di vittorie.

L'ineluttabilità delle belle speranze

A Peter i panni del predestinato che diventa idolo però sono sempre andati stretti. Mai la sua carriera si è mossa in funzione delle aspettative di qualcuno che non fosse lui stesso, e viene da chiedersi se a un certo punto non siano state le attese che lui stessa aveva su di sé, a venir meno. Da quando era passato pro, nel 2010, con l'allora Liquigas Doimo, era stato fatto esordire al Tour Down Under, uscendone con qualche piazzamento, per poi guadagnarsi i primi titoli sui giornali con quelle due vittorie conquistate con una facilità disarmante alla successiva Parigi-Nizza: aveva dimostrato di avere le doti di un velocista, lo scatto di un classicomane, i watt di un cronoman. Si usciva allora dall'epoca dei Bettini e dei Rebellin, e a far man bassa delle classiche erano rimasti Boonen, Cancellara e Gilbert, oltre ad un Freire che si sarebbe preso un'ultima Sanremo quell'anno (Sagan non partecipò quell'anno, e di certo qualcuno avrà pensato, forse addirittura scritto, che il ragazzo deve crescere, inutile accelerare i tempi, farà a tempo a vincerne tre o quattro).

Prometteva, uno che a vent'anni aveva già quei numeri, di essere potenzialmente qualsiasi cosa, la classica “next big thing”, anche se l'anno dove per il ragazzo dimostrò di poter battere i più forti fu il 2012: già il quarto posto alla Sanremo, regolando il gruppo all'inseguimento del terzetto Gerrans-Cancellara-Nibali (o meglio, Cancellara e i due passeggeri del treno, bisogna pur dirlo) lo aveva consacrato come una delle ruote più veloci del gruppo (già l'anno prima erano arrivate le prime vittorie di peso alla Vuelta). Le tre tappe vinte al Tour e la prima maglia verde messa in cassaforte con punteggi clamorosi aveva convinto i più che, quando se lo fosse messo in testa, Peter avrebbe potuto vincere su tutti i terreni, tanto che qualche vittoria nelle brevi corse a tappe (il Giro di Polonia nel 2011) faceva pensare addirittura che prima o poi avrebbe potuto ambire a far classifica in qualche GT: vengono facili i paragoni con la generazione di fenomeni che gli sarebbe succeduta, Van der Poel e Van Aert su tutti, ma qui inizierebbero altre discussioni, per ora basti dire che di questo tipo di ciclisti è Sagan è stato certamente il precursore. Anche nelle classiche del Nord infatti erano arrivati i primi piazzamenti (secondo alla Gand, quinto al Fiandre, terzo all'Amstel, secondo alla Strade Bianche di Moser) che facevano pensare a Sagan come a un potenziale crack in qualsiasi classica, ma quei risultati, con l'andar del tempo, più che promesse sarebbero suonati sempre più come smacchi.

Il più pesante di questi arrivò in quella Sanremo da tregenda del 2013: nemmeno la neve del Turchino e il freddo sembravano aver messo in difficoltà Peter, che arrivato sul lungomare Italo Calvino, doveva aver ragione di un gruppo di altri sei avversari. Un rigore per lui, fallito non per colpa di Cancellara, di Kristoff o di Cavendish, ma di Gerald Ciolek, teutonico prospetto che, al contrario di lui, mai aveva corrisposto a quanto fatto vedere nelle categorie giovanili: più che scegliere chi fosse il Barone Rampante e chi il Cavaliere Inesistente, sul lungomare Calvino andò in scena il Castello dei destini incrociati.

Peter Sagan battuto da Gerald Ciolek alla Milano-Sanremo 2013 ©Gerald Ciolek via IG
Peter Sagan battuto da Gerald Ciolek alla Milano-Sanremo 2013 ©Gerald Ciolek via IG


New Cycling Star?

Gli anni successivi furono la ripetizione di un canovaccio che faceva mugugnare i suoi sostenitori: tentativi puntualmente andati a vuoto nelle classiche, mondiale compreso, dove una vittoria non arrivava quasi mai (si consolò con una Gand-Wevelgem e una Freccia del Brabante, quando batté un Philippe Gilbert in maglia iridata), la Roubaix saltata per due anni (sembra che per Amadio non fosse adatta a lui), gli immancabili Tour of California e i Tour de France dove dominava le classifiche a punti, che sembravano il vero obiettivo imprescindibile della stagione: il thread del forum di Cicloweb su di lui titolava da ormai tanti anni: Peter Sagan, new cycling star?

A togliere quel punto di domanda arrivò il Mondiale di Richmond, vinto con un numero d'alta classe con cui si era staccato di ruota il meglio degli scattisti che il panorama ciclistico potesse offrire (Gilbert, Van Avermaet, Valverde, Matthews...): fu quello il primo dei tre titoli consecutivi da lui vinti, striscia che terminò sulle asperità del Mondiale di Innsbruck 2018, quello in cui Valverde trovò finalmente l'iride succedendogli.

Con quel successo erano arrivati anche i primi attestati di stima dalla stampa generalista: dalla macchietta che allungava le mani sul fondoschiena di una miss sul podio del Fiandre, ora Sagan faceva le notizie per le sue prime parole dopo la vittoria iridata: «Vincere qui il Mondiale - disse - è una cosa che mi dà molta motivazione e mi dà la possibilità di parlare della difficile situazione che noi viviamo in Europa. Come popolo del mondo dobbiamo cambiare, spero che attraverso lo sport possiamo essere un esempio per rendere il mondo migliore». Il presidente slovacco Andrej Kiska lo idolatrava: «Un guerriero. Questa è la parola più adatta. Nonostante la sfortuna, si alza ogni giorno e va alla grande. Questo è il segreto del suo successo, non si arrende mai e dà sempre tutto quello che ha. Stai rendendo la nostra nazione orgogliosa di te, Peter». Ciliegina sulla torta, Sagan si era sposato, e alla sua immagine mediatica di atleta guascone e divertente, rinvigorita dai suoi stessi video sul proprio canale YouTube, si erano aggiunte quelle del marito prima e del padre poi.


Passato dal 2015 in Tinkoff, era ormai l'atleta più vincente e pagato del movimento. Nel 2016 era arrivato finalmente anche il Giro della Fiandre, e nel 2018, in maglia Bora, la Parigi-Roubaix. Poi qualcosa si era inceppato: l'anno dopo sarebbe arrivata l'ultima maglia a punti del Tour e quello dopo ancora, il 2020, aveva portato in dote solo una vittoria al Giro, dopo un Tour da cui era uscito per la prima volta a bocca asciutta dopo sette anni. Il matrimonio era finito molto male e con strascichi legali, e da allora il Sagan che impennava e teneva banco nel gruppetto dei velocisti non si è più visto, lasciando spazio ad un corridore che ha dato sempre più l'impressione di star semplicemente adempiendo ai suoi obblighi, quasi contento che i nuovi fenomeni che stavano esplodendo intorno gli togliessero pressione.

Il tramonto e il ritiro

Gli ultimi tre anni hanno regalato solo due campionati slovacchi (ne ha vinti otto in carriera, a cui potremmo aggiungere i quattro “concessi” al fratello Juraj), una maglia ciclamino al Giro d'Italia 2021, una tappa al Tour de Suisse 2022, (un totale di sole due successi in maglia TotalEnergies), fino al suo penultimo anno da corridore, il 2023, il primo in cui proprio la vittoria non è arrivata mai. Nel buen ritiro che si è scelto per l'ultima stagione, dedicata alla mountain bike, si è giusto concesso due corse a tappe su strada con maglia della Pierre Baguette, una in Ungheria e una nella sua Slovacchia: niente fuochi d'artificio e passerelle finali, ma un saluto tanto sottotono rispetto ai grandi degli anni '10 da suonare quasi mesto.

Peter Sagan al Tour of Slovakia 2024 ©Marek Beneš
Peter Sagan al Tour of Slovakia 2024 ©Marek Beneš

Da Peter Sagan, nella lunga carriera che ha avuto su strada, avremmo voluto vedere molte altre meraviglie rispetto a quelle che ci ha regalato: tra tante attese soddisfatte ne troveremmo sempre altrettante inappagate, ma d'altronde a che serve essere il numero uno del mondo se non ci si può prendere la libertà, ad esempio, di correre una prova MTB alle Olimpiadi di Rio senza alcuna certezza di risultato, quando nella prova su strada avrebbe poi vinto Greg Van Avermaet, il corridore che in quel momento gli contendeva più corse per analogia di caratteristiche. Se tanto carattere serve per esaudire le attese, forse altrettanto ne serve per deluderle e non trasformarle in pretese.

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