Questi Mondiali un po’ così
Troppo a ridosso del Tour per creare il giusto hype, con un calendario rivedibile che prevede subito la prova in linea e la sovrappone pure alla pista, una deprimente Nazionale azzurra su strada ed il Cycle-ball (!) a darci il colpo di grazia
Tra i mille rituali che scandiscono uno sport intrinsecamente legato alle tradizioni come il ciclismo, c’è, senza alcun dubbio, la lunga marcia di avvicinamento che ogni stagione ci accompagna fino ai Mondiali su strada: al di là di classiche e grandi giri, infatti, la rassegna iridata inizia sempre con mesi di anticipo a fare capolino nelle attese degli appassionati, nei ragionamenti degli addetti ai lavori e nelle mille speculazioni che tutti – appassionati e addetti ai lavori – facciamo su cosa davvero accadrà “in quel giorno lì” (o, come dicono quelli bravi, nel D-Day) e, di conseguenza, su quali saranno gli uomini da battere, e quali le possibili sorprese. Per poi diventare, i Mondiali, praticamente l’unica chiave di lettura attraverso cui analizzare le corse successive al Tour de France.
Quest’anno, invece, la maglia arcobaleno sarà messa in palio già domenica prossima, 6 agosto, ad appena due settimane dalla fine della Grande Boucle. E senza che, di fatto, sia stata disputata nessuna di quelle corse che, un tempo, si sarebbero dette pre-mondiali. Tale, infatti, non può essere considerata la Clásica di San Sebastián di sabato scorso, corsa forte ormai di una sua specifica dimensione e, soprattutto, dipanatasi su un percorso e con un cast di interpreti troppo diversi da quelli che ritroveremo a Glasgow, per poter fornire delle indicazioni attendibili. Per quanto a vincerla sia stato, ancora una volta, proprio quel Remco Evenepoel che è anche campione del mondo uscente e tutt’altro che intenzionato ad abdicare in terra scozzese.
Ma questo è un altro discorso, che ha che vedere con l’eccezionalità del fenomeno belga, mentre rimane il fatto che questi mondiali ci arrivano in faccia “così, de botto, senza senso”, come direbbero gli sceneggiatori di Boris, quando ancora non ci siamo ripresi del tutto dall’epico duello tra Vingegaard e Pogacar, e proprio mentre molti di noi si accingono a preparare le valigie per le meritate vacanze. Mettiamoci pure che, nei prossimi dieci giorni, assisteremo contemporaneamente alle prove iridate di qualsiasi disciplina che abbia a che fare con le due ruote – dalla strada alla pista, dalla mountain bike alla bmx, fino alle improbabilissime specialità indoor del ciclismo artistico e del cycle-ball di gialappiana memoria – ed ecco che lo smarrimento è completo.
Non solo: contravvenendo a qualsiasi dogma della nostra fede ciclistica, la corsa in linea élite non sarà l’evento conclusivo della rassegna, bensì uno dei primi, andando a precedere non solo la cronometro – fatto, già di per sé, che se fossimo il Papa o l’Ayatollah etichetteremmo senza alcun dubbio come eretico e contronatura – ma, addirittura, la prova femminile e quella degli under 23 che, tradizionalmente, erano sempre servite a fornire le ultime, preziosissime indicazioni circa il possibile svolgimento tattico tanto ai commissari tecnici in ammiraglia, quanto a quelli al bar.
E qui veniamo ad un altro punto dolente, anzi dolentissimo, di tutta la faccenda: la prospettiva desolante con cui la nostra Nazionale si appresta a scendere nella mischia domenica prossima. Perché per quanto Cicloweb abbia sempre raccontato il ciclismo sfuggendo alla retorica nazionalistica, se c’è una corsa che meriti di essere seguita con il cappello del tifoso, quella è proprio il Mondiale. Perché c’è più gusto a sciropparsi quelle sei ore e passa – in cui il gruppo percorre per una ventina di volte lo stesso circuito, abituandoci a riconoscerne ogni curva, ogni aiuola ed ogni scritta sull’asfalto – cercando di capire “per chi tira la Polonia?” e, più in generale, di dare un senso alle mosse di ogni singola nazionale. Cominciando, naturalmente, da quella azzurra, nella speranza che ad alzare le braccia al cielo possa essere uno dei nostri.
Ma ormai sono passati 15 anni dall’ultimo trionfo tricolore – la doppietta Ballan-Cunego a Varese 2008 – e non è nemmeno tanto quello il problema: in fondo, pure tra il bis iridato di Bugno a Benidorm ‘92 e la volata regale di Cipollini a Zolder 2002, era passato un decennio. Il problema è che da allora, da quell’indimenticabile “Ballaaaaaan!!!” di bulbarelliana memoria, anno dopo anno le nostre chances sono andate scemando sempre di più, fino al punto che, questa volta, quasi non abbiamo nemmeno più il coraggio di sperarci, che uno tra Bettiol, Trentin, Bagioli o chiunque altro, possa riuscire nell’impresa di battere gli Evenepoel, i Van Aert, i Philipsen (a proposito, senza squadra il Belgio, eh? Ma chissà che non abbia ragione Boonen a vedere troppi galli in quel pollaio), i Van der Poel, i Pogacar, i Pedersen, i Matthews o i Laporte. E se almeno avessimo un Ben Healy, un Mauro Schmid o un Matteo Jorgenson, o un Van Baarle, o anche solo un Politt o un Cavagna con cui azzardare un colpo di mano! O perfino un Alaphilippe o un Sagan che, per quanto bolliti, come si vince un campionato del mondo lo sanno bene, anzi benissimo, tanto dall’averne vinti cinque in due.
E invece, niente di tutto questo: senza nulla togliere a ciascuno dei ragazzi selezionati da Daniele Bennati – perché poi non si può certo rinfacciare la miseria di un intero movimento a quei pochi che, perlomeno, ancora tengono botta a certi livelli – appare davvero difficile pensare che qualcuno, domenica, possa estrarre il proverbiale coniglio dal cilindro: ok, “Bettiol ha vinto un Fiandre!” (e comunque sono passati quattro anni), ma che altro? Dovrebbe rincuorarci il fatto che il 17 gennaio – sei mesi e mezzo fa! – dall’altra parte del mondo, abbia vinto il prologo del Down Under? E Trentin, proprio a Glasgow, si è laureato campione europeo davanti ai due Van più forti del mondo (der Poel, secondo; e Aert, terzo) ma di anni, in questo caso, ne sono passati addirittura cinque, e di acqua sotto i ponti ancora di più: praticamente un’inondazione.
Bagioli e Velasco, se non altro, recentemente hanno vinto delle corse: ma possono una tappa del Vallonia nel caso di Andrea o, in quello di Simone, il titolo italiano (che per ovvi motivi, non poteva sfuggirci! eja eja alalà!) rappresentare un serio un biglietto da visita? Aggrappiamoci giusto alla speranza, dunque, e al precedente di quel tale Óscar Freire che, nel 1999 a Verona, mise tutti nel sacco forte, quale miglior risultato precedente, nientemeno che di un secondo posto al Trofeo Ocaña. Ma chi fosse Freire, poi, abbiamo imparato a conoscerlo negli anni a venire e, spesso, proprio al Mondiale.
Non che al femminile vada molto meglio, perché nonostante proprio le donne, in questi ultimi anni, abbiano retto la baracca con risultati infinitamente superiori a quelli degli uomini su tutti i terreni, per un’inenarrabile serie di sfighe le azzurre arrivano a Glasgow che spuntate è dire poco: Balsamo non è certo nella sua miglior stagione, Longo Borghini, Cavalli e Paternoster nemmeno ci sono, Bastianelli ha pensato bene di smettere dopo il Giro e, allora, speriamo (tanto per cambiare) che le pieghe della corsa consentano almeno di giocarsela ad una tra Consonni, Gasparrini e Persico. Però vuoi mettere le olandesi? Anzi, le neeeeeerlandesi? (E sia chiaro, questa è la prima e anche l’ultima volta che uso questo aggettivo per riferirmi al paese orange). O le belghe? O meglio: vuoi mettere la Kopecky?
Per fortuna c’è la pista, verrebbe da dire, che già oggi s’è messa in moto con le qualificazioni dell’inseguimento a squadre di cui siamo campioni olimpici in carica a livello maschile, e mondiali al femminile. Ma questa è proprio un’altra ragione dello spaesamento con cui ci prepariamo a seguire Glasgow 2023: perché se da una parte mettere insieme tutte le discipline del pedale rappresenta un’indubbia (e voluta) occasione di promozione per le sorelle minori della strada, dall’altra il modo in cui questo mix è stato concepito è a dir poco confusionario.
A gridare vendetta è, in particolare, proprio l’accavallamento tra le corse in velodromo e quelle su asfalto, in un’era in cui le due discipline sono diventate interscambiabili per molti corridori, capaci di essere protagonisti tanto nelle gare di endurance della pista, come su strada. Giusto per non fare nomi, gente come Ganna e Milan avrebbe potuto essere utilissima anche domenica a Bennati, ma avrebbe avuto senso comprometterne le prestazioni del quartetto e dell’inseguimento individuale? E naturalmente è un problema comune a molti altri: pensiamo a quanti, tra gli stradisti, avrebbero magari voluto cimentarsi nell’Omnium, e viceversa (ad esempio, il Benjamim Thomas visto quest’anno sarebbe stato prezioso per Laporte e Alaphilippe), peccato però che le due prove siano in perfetta contemporaneità, naturalmente domenica. Van der Poel e Sagan, invece, avranno a disposizione sei giorni, dal 6 al 12 agosto, per riconvertirsi da stradisti a biker: comunque pochi per recuperare e ricalibrarsi, anche mentalmente. E se volete, continuiamo…
Poi è vero che, fino a metà anni Novanta, i Mondiali si correvano proprio in estate, e sempre riunendo strada e pista nella stessa sede: ma solitamente cadevano comunque almeno un paio di settimane più in là nel calendario, dunque più lontane dal Tour e, ad ogni buon conto, si gareggiava prima in velodromo e poi su strada. Ma soprattutto, ci veniva risparmiato lo spettacolo del cycle-ball, altrimenti detto… Ciclopalla. Davvero, ragazzi: il cycle-ball! Ma di cosa diavolo stiamo parlando???