“La storia siamo noi, nessuno si senta escluso”: nemmeno gli sportivi
Sempre più la politica si comporta come lo sport, eppure gli sportivi faticano a trovare una dimensione politica, e gli appuntamenti elettorali non fanno eccezione. Ma la dinamica è ormai in atto e non si tornerà indietro
Per il tema della prima prova dell’esame di maturità del 2019, il Ministero dell’Istruzione propose di riflettere “sul rapporto tra sport, storia e società”. In quel caso lo spunto di riflessione della traccia fu Gino Bartali con le sue azioni durante la Seconda Guerra Mondiale e la sua mitologica vittoria al Tour del 1948 che “evitò” la guerra civile.
Non vuole essere argomento di questo articolo la questione storica sui documenti trasportati o meno da Gino Bartali per salvare decine di ebrei dalla ferocia nazi-fascista, in ogni caso non sono messi in discussione l’alto valore morale e il coraggio di un uomo che ospitò e nascose una famiglia ebrea nelle cantine di casa propria.
In questo momento è interessante approfondire il rapporto tra sport e storia, politica e società, alla luce del significato che sta assumendo negli ultimi anni e del frequente e recente insuccesso elettorale degli atleti alle elezioni.
Dopo le partite del Marocco ai mondiali di calcio Qatar 2022, le periferie delle città europee sono state testimoni di festa, gioia, a volte anche sfogo di rabbia repressa da parte di masse di immigrati, non solo marocchini. Un significato che indubbiamente va oltre il risultato sul campo, una gioia che sgorga da cuori che hanno vissuto sofferenza, pregiudizio, vero e proprio razzismo: una festa sportiva, ma con forti significati politici.
Nella storia dello sport abbiamo assistito molte volte ad una strumentalizzazione dello stesso da parte della politica. Gli esempi possono essere innumerevoli: dalle olimpiadi di Berlino 1936, vetrina del nazismo; alla strage di Monaco '72, quando l’organizzazione palestinese Settembre Nero irruppe nel villaggio olimpico, sequestrò ed uccise 11 atleti israeliani ed un poliziotto tedesco; al pugno di Smith e Carlos sul podio delle olimpiadi di Città del Messico 1968; squadre di calcio traino del consenso elettorale o sociale (vedi alla voce calcio italiano); e tanti e tanti altri esempi si potrebbero aggiungere all’elenco.
Eppure nel corso del tempo, in particolare negli ultimi anni, abbiamo osservato un cambiamento del fenomeno, non più lo sport come semplice oggetto e strumento della politica, ma uno sport che è diventato esso stesso politica. Andiamo con ordine e torniamo nel nostro Paese al 1948.
Il 14 luglio 1948 Antonio Pallante, simpatizzante di destra, attenta alla vita di Palmiro Togliatti, segretario del PCI (Partito Comunista Italiano). L’Italia appena uscita dal secondo conflitto mondiale è sull’orlo di una guerra civile; in quei giorni le piazze italiane furono teatro di scontri con morti, feriti ed arresti.
Tra storia e leggenda si racconta che il presidente del consiglio stesso, Alcide de Gasperi, telefonò a Gino Bartali, chiedendogli se potesse vincere il Tour de France al fine di placare gli animi delle piazze. Vera o non vera quella chiamata, vero o non vero il mito, a quella fantastica vittoria al Tour del Gino nazionale è attribuito il merito di aver salvato il Paese. Pochi invece ricordano il chirurgo Pietro Valdoni che salvò la vita al segretario del PCI e che permise al “Migliore” di fare un appello alla radio richiamando alla calma il suo popolo.
Quella era un’Italia ancora contadina che si identificava nel ciclista, nelle sue fatiche e nelle sue imprese. Era un’Italia in simbiosi con il suo sport nazionale, il ciclismo, che aveva la bicicletta come mezzo di trasporto più comune per recarsi al lavoro.
Nel luglio 1960 le piazze italiane sono di nuovo testimoni di morte. La scintilla, che fece scoppiare nuovamente gli scontri, fu la decisione del Movimento Sociale Italiano (MSI) di tenere il proprio congresso nazionale a Genova, città Medaglia d’Oro della Resistenza. È solo una scintilla, la vera ragione è l’insofferenza di gran parte del paese nei confronti del governo Tambroni, il governo più a destra della Prima Repubblica, monocolore democristiano con appoggio esterno del MSI. Ci furono morti in diverse città, solo a Reggio Emilia sette manifestanti, che ispirarono una ben nota canzone di lotta.
Come ogni luglio si corre il Tour de France e ancora un toscano, Gastone Nencini, vince la maglia gialla. Nessun mito, nessun merito al Leone del Mugello di aver evitato la guerra civile al nostro Paese. Questo non solo perché la personalità e la fama di Gino Bartali fossero maggiori di quelle di Nencini, ma giacché l’Italia del 1960 non era più l’Italia del 1948.
Le due piazze, quella del 1948 e del 1960, erano molto simili politicamente, entrambe erano composte nella loro quasi totalità da militanti del PCI e della CGIL; ma non lo erano più culturalmente. La piazza del 1960 era di un’Italia che iniziava a sognare il bene di consumo, la Lambretta, l’auto, non aveva più la bicicletta come oggetto del desiderio. La forma politica era sostanzialmente identica a quella del 1948, la natura sociale non più.
Il cambio anche della forma avverrà esattamente due anni dopo, il 7-9 luglio 1962 nella rivolta di Piazza Statuto a Torino, dove la piazza sindacale fu in poche ore sostituita da immigrati dal sud, giovani non politicizzati, semplici cittadini, quello che verrà definito “l’operaio massa”. Oramai il ciclismo non occupa più il primo posto nel cuore degli italiani, il calcio e l’automobilismo hanno preso il primato, l’Italia non abbandona solo fisicamente le campagne per riversarsi nelle periferie urbane, ma cambia (tradisce?) la propria cultura contadina con quella industriale e consumistica. La diversa mitizzazione delle vittorie di Bartali e Nencini aveva anticipato l’evidenza di questo fenomeno.
Da questo passaggio storico si capisce come lo sport sia secondario alla politica, entra nel mito solo quando serve ad essa, ne esce quando non è più utile.
Nel decenni successivi qualcosa inizia a cambiare. La politica non utilizza lo sport solo strumentalizzandolo ai propri fini, ma ne impara ed assorbe le caratteristiche. Si assiste ad una trasformazione del militante in tifoso, il linguaggio si riempie di metafore sportive, le masse politiche sono trasformate in mute, simili e a tratti identiche a quella dei tifosi.
La muta è un raggruppamento provvisorio, un’accozzaglia, pur nella profusione di segni identitari e microidentitari, frutto del processo di decomposizione politica, un surrogato di comunità (a)politica. Non è un ritorno alla tribù, che è una struttura sociale dotata di un senso, di un discorso, di una valenza mitologica; una muta è un’illusione di comunità. Le manifestazioni assomigliano sempre più alle masse di tifosi, sia nella forma e nella voce (cori, slogan), sia nell’accozzaglia sociale, non più organizzata e divisa in classi sociali, ma trasversale e feticista, nel senso di essere legata ad un feticcio identitario.
La trasformazione e la commistione sono state così radicali, che oggi lo sport è talmente simile alla politica che siede al suo stesso tavolo.
Al principio della crisi Russo-Ucraina lo sport ha adottato una chiara posizione, ha preso autonomamente decisioni politiche (esclusione nazionale e club russi, atleti russi senza bandiera in gara), non più sotto ordine. Lo sport decide chi e quale messaggio deve essere sostenuto; si può, per fortuna, esporre sugli spalti di uno stadio una bandiera ucraina in solidarietà al quel popolo, ma si è posti all’indice se se ne espone una palestinese (vedi tifosi del Celtic Glasgow). Lo sport non è sopra le parti, ma è parte politica. La stessa bandiera palestinese oggi è stata tollerata in un Mondiale, forse perché disputato in uno stato arabo?
A questo punto è normale e naturale che lo sport prenda posizione, chiedere uno sport politicamente neutro è ad oggi ingenuo.
E in questo nuovo contesto, le imprese sportive e gli atleti che effetto politico possono avere? Abbiamo già visto in passato che non basta una vittoria su un campo di calcio per ottenere le Malvinas (Argentina-Inghilterra, Mexico 1986), così come il bel Mondiale dei Leoni dell’Atlante a dare migliori condizioni lavorative e sociali ai marocchini in Europa, ma è altrettanto vero che dopo un grande trionfo sportivo umori ed identità di un popolo possono risollevarsi, generando anche aumenti di prodotto interno lordo (PIL).
Secondo Beppe Conti, la vittoria degli Azzurri al mondiale spagnolo del 1982 e la rivalità tra Saronni e Moser hanno contribuito a far uscire l'Italia dagli anni di piombo del terrorismo. Non so dire quanto sia vero, ma avendo vissuto quel momento storico, posso affermare che la gioia e l’orgoglio nazionale furono tanti. Attualmente ai protagonisti dello sport e alle loro imprese rimane un ruolo marginale, ancora semplice strumento della politica.
In quest’ottica è necessario leggere il frequente insuccesso elettorale (salvo rare eccezioni) degli sportivi, ultimo quello di Sonny Colbrelli e Claudio Chiappucci alle recenti elezioni regionali lombarde. Abbiamo già parlato nella Tribuna del Sarto del ruolo nella società del corpo dello sportivo (Un approccio ecologico per salvare gli sportivi da se stessi), del suo valore simbolico, ma gli atleti rimangono di fatto assenti dalla politica. È paradossale che nel momento in cui lo sport diventa politica, il suo protagonista sia escluso da essa.
L’esercizio politico dello sport è elitario, non democratico, oligarchico.
Si è già scritto in Cicloweb (Colbrelli candidato, sta' a vedere se il problema è Forza Italia...) della candidatura del vincitore della Roubaix 2021. Oggi, a consultazioni avvenute, dobbiamo fare i conti con il fatto che lo sportivo Colbrelli non ha ricevuto i voti necessari ad essere eletto, pur facendo parte della maggioranza vincente alle elezioni.
L’atleta rimane ai margini del potere, escluso, e così purtroppo anche i temi che il Cobra o il Diablo avrebbero potuto portare nell’assemblea regionale, ad esempio la sicurezza sulle strade. L’atleta è escluso dal tavolo decisionale della politica, lì dove già siedono gli alti rappresentanti del CIO e delle federazioni più importanti.
I tempi sono prematuri affinché un elettore giudichi “credibile” uno sportivo, ma è anche vero che quest'ultimo ha iniziato ad avere un peso in seno alle federazioni. È in corso all’interno del mondo dello sport un processo di politicizzazione e sindacalizzazione dell’atleta, non da un punto di vista ideologico, o per lo meno non ancora; lo sportivo ha capito che può contrattare con la proprie istituzioni di riferimento, inizia ad avere voce e reclamare i primi diritti. È un processo ancora nella sua fase iniziale, talora con topiche clamorose (tappa di Morbegno al Giro d’Italia), ma che potrebbe in futuro portare a riconoscere nell’atleta una credibilità politica che al momento non ha ancora raggiunto.
Sonny e Claudio avrebbero potuto svolgere al meglio il proprio ruolo, magari l’appuntamento è solo rimandato, ma non è bastato il loro prestigio sportivo ad attirare consenso. Il pregiudizio sull’atleta ignorante - “ciao mamma, sono contento di essere arrivato uno” - è ancora diffuso. Chi segue davvero lo sport sa bene quanto questo assunto non sia vero, anzi; ma c’è ancora tanto da fare, e partire da un maggior peso del ruolo degli atleti nelle federazioni è la strada giusta. Sarà la prassi politica e sindacale a dare credibilità ad un lavoratore com’è a tutti gli effetti lo sportivo professionista.
Auguro a Sonny e Claudio di non abbandonare il loro impegno, di portare avanti temi a loro vicini, di fare quello che ogni libero cittadino ha diritto di fare: politica. Come canta De Gregori, “la storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso”.
In conclusione, possiamo riconoscere come il rapporto sport e politica si sia evoluto e modificato nel tempo, nella storia e nella società, come i due mondi si siano compenetrati e cambiati a vicenda, e di come questo processo sia tuttora in corso e potrebbe, speriamo, vedere l’atleta protagonista come cittadino, non solo come icona o strumento.
Forse mi sto spingendo un po’ oltre, forse sto ingigantendo un fenomeno, oppure più semplicemente il buon Gino Bartali se avesse letto queste righe avrebbe commentato, “l’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare”.