Piangere Mäder non serve a niente
Quella di Gino non è stata una “inevitabile tragedia senza colpevoli”, ma l’ennesima morte sul lavoro. E anche se il rischio non si potrà mai azzerare, va fatto il possibile per limitarlo: anche a beneficio di milioni di amatori
No, all'indomani della morte di Gino Mäder, non è una polemica gratuita invocare un giro di vite nella ricerca e sviluppo di dispositivi di sicurezza compatibili con l'esercizio del ciclismo professionistico. Non è una critica sterile chiedere che venga fatto il possibile affinché le conseguenze mortali di certi incidenti, in futuro, siano sempre meno frequenti. Non è inopportuno chiedere questo. Anzi, è il modo migliore per onorare la memoria del ragazzo, in luogo dei soliti, contriti e insopportabili articoli di commiato che esaltano l'eroismo dei corridori ed il romanticismo di uno sport antico, liquidando l'incidente come l'inevitabile conseguenza di un tragico destino senza colpevoli.
Tutto il contrario: la morte di Mäder, come quella di tanti, troppi colleghi prima di lui – e di tantissimi cicloamatori, ogni fottuto giorno – non obbedisce a nessun tragico destino, ma è la conseguenza di protezioni semplicemente inadeguate. Inadeguate in senso assoluto, e inaccettabili per gli standard di sicurezza che, nel 2023, devono essere pretesi in ogni ambito lavorativo. Perché sì, quella dello svizzero è una morte sul lavoro. Né più, né meno, di quella di un portuale schiacciato da un container, o di un muratore caduto dalle impalcature. Il fatto, poi, che non ci siano colpevoli, è ancora un altro discorso: le autorità svizzere, come da prassi, hanno aperto un'inchiesta sull'accaduto, ma non è questo il punto. Probabilmente verrà accertato che i soccorsi sono stati tempestivi, e si constaterà che sarebbe stato impossibile mettere in sicurezza l'intera discesa dell'Albulapass: considerazioni che non porteranno all'individuazione di nessun colpevole.
Ed in effetti non credo interessi a nessuno ascrivere la morte di Gino a Tizio, Caio o Sempronio. L'unica cosa che conta è di non perdere l'ennesima occasione per affrontare un ragionamento strutturale su cosa significhi, oggi, correre in bicicletta. Su quali accorgimenti si possano – anzi, si debbano – adottare per ridurre al minimo un rischio che, lo sappiamo bene, non potrà mai essere azzerato. Ma che può, senz'altro, essere minimizzato. Ce le ricordiamo tutti le resistenze del gruppo all'imposizione del casco obbligatorio, una ventina d'anni fa, dopo la morte di Kivilev, vero? E però oggi tutti lo indossano, senza che più nessuno lo consideri invasivo o fastidioso. Anche perché, nel frattempo, è cresciuta un'intera generazione di corridori che, con il casco, ci è nata. Non sono certo quei pochi grammi in testa a compromettere o limitare le prestazioni. Né lo sarebbe, in prospettiva, l'integrazione di un airbag del peso di un chilo all'interno dei body, pronto ad aprirsi per proteggere schiena e torace in caso di impatto. Gli sciatori alpini lo usano già da diverse stagioni, e sono molteplici i casi in cui lo strumento si è rivelato fondamentale nell'evitare gravi conseguenze.
Naturalmente nessuno è in grado di dire se, con un airbag, Mäder si sarebbe salvato. Magari a lui non sarebbe comunque servito, ma ad altri sì. E la ricerca nel campo della sicurezza, alla lunga, porterebbe ad un naturale perfezionamento dei dispositivi utilizzati, nonché ad un abbassamento dei costi necessari a produrli. Il che significherebbe, un domani, rendere questi accessori alla portata di tutti, anche dell'amatore della domenica. E sappiamo tutti quanto ce ne sarebbe bisogno.