Il ciclismo ha tutto da imparare dal caso di Jannik Sinner
La discrezione riservata al tennista altoatesino dovrebbe essere la prassi anche nel nostro ambiente che, invece, vive ancora di sensi di colpa e per questo continua a mettere alla gogna i corridori
«Stessa camera, stesso servizio, ma prezzi diversi». È il claim, ben noto, dello spot di Trivago, una delle tante piattaforme online specializzate nella comparazione dei prezzi di hotel, assicurazioni ed utenze domestiche. A ben vedere, però, questo stesso slogan si attaglierebbe perfettamente anche al modo in cui viene gestita la politica antidoping nei vari sport: «Stessa sostanza, stesso dosaggio, ma prezzi (enormemente) diversi» in termini di conseguenze disciplinari. Ultimo, eclatante esempio, la positività di Jannik Sinner al Clostebol, rinvenuto in quantità infinitesimali nel sangue del tennista numero 1 al mondo e, undici anni fa, nelle stesse infinitesimali quantità in quello di un corridore ai primi anni di professionismo, Stefano Agostini, che per quella vicenda ebbe la carriera rovinata.
Il caso Sinner, o di come dovrebbe sempre funzionare
Decisamente meglio, finora e al netto di eventuali ricorsi, sembrerebbe essere andata a Sinner: innanzitutto perché nulla è trapelato sulla stampa dal giorno del test incriminato, il 10 marzo, a quello dell'assoluzione da parte del tribunale indipendente a cui il tennista si è rivolto, a Ferragosto. E dovrebbe sempre andare cosi, anziché gettare subito il malcapitato atleta di turno in pasto allo shitstorm mediatico, come troppe volte abbiamo visto accadere ai corridori.
In secondo luogo, Sinner è riuscito a dimostrare la propria buona fede e questo gli è stato sufficiente ad evitare sanzioni particolarmente dure, pur avendo perso i punti e i premi ottenuti a Indian Wells. Nel conto, al netto della versione ufficiale che aveva parlato di una "tonsillite", probabilmente va messo anche il silent ban che gli ha impedito di partecipare ai Giochi Olimpici, ma si tratta pur sempre di un prezzo ragionevole pagato per quella che pare essere stata niente più che una veniale negligenza.
E ribadiamo, dovrebbe essere sempre questo il modus operandi a cui attenersi: trattare ogni positività con la dovuta discrezione fino a che non venga emessa una sentenza, ed elargire sanzioni commisurate all'entità del caso di specie, senza alcuna velleità di impartire una punizione esemplare a chicchessia.
Il tennis fa quadrato; il ciclismo… lasciamo perdere
Ma di questa insopportabile disparità di trattamento a livello sanzionatorio hanno già scritto in molti senza che ci sia, da parte mia, nulla da aggiungere. C'è però un altro aspetto delle due vicende su cui mi preme, invece, mettere l'accento: oltre ad una squalifica ben più severa, infatti, Agostini incappò anche nella sospensione immediata, e a stretto giro nel licenziamento, da parte della propria squadra, mentre il sistema-tennis (al netto di qualche pur rumorosa eccezione, vedi alla voce Nick Kyrgios) sta facendo quadrato attorno ad uno dei suoi uomini faro. E anche in questo caso è giusto e sacrosanto che sia così, e lo sarebbe anche se Sinner fosse il numero 500 al mondo e non al primo posto del ranking. Punto.
Quante volte, invece, abbiamo visto il ciclismo abbandonare, se non distruggere i suoi stessi protagonisti, dall'ultimo dei gregari al più grande dei campioni? I nomi li conosciamo tutti, non vale nemmeno la pena citarli, bensì chiederci a cosa abbia portato questo accanimento nei loro confronti. E non diamo la colpa alla stampa: quella, se mai, ha solo cavalcato le occasioni di sensazionalismo che lo stesso movimento ha fatto di tutto per offrirle.
Perché se ancora oggi, nonostante tutto, è sempre e soprattutto il ciclismo ad essere additato come sport di drogati, è per un evidente limite culturale dei suoi stessi attori, a partire da chi lo ha guidato a cavallo tra vecchio e nuovo millennio, quando si avallò la caccia alle streghe e ci si lasciò trascinare in un isterico tutti contro tutti.
Dall’allora presidente Uci Pat McQuaid in giù, compresi sponsor e gruppi sportivi, l’apparato si è dimostrato del tutto incapace di gestire nella maniera più fredda, e opportuna, la comunicazione di un fenomeno di per sé connaturato ad ogni disciplina agonistica. Un limite culturale, ribadisco, perché tale è l’incapacità di comprendere, e conseguentemente anche di spiegare all’esterno, la differenza tra doping e medicina sportiva: e così in tanti hanno finito per credere di essere davvero più colpevoli rispetto ad altri sport, di avere qualcosa da nascondere e, quindi, che anziché controbattere nel merito alle accuse generalizzate, provando a circostanziare i fatti e contestualizzare le situazioni, fosse più semplice cercare dei capri espiatori da offrire all’opinione pubblica. O vale la pena ricordare che, ancora una dozzina di anni fa, bastava avere il numero di Michele Ferrari in rubrica per beccarsi qualche mese di squalifica?
Le non secondarie responsabilità storiche dei team
E torniamo, appunto, alla cosa che più mi sta a cuore nella vicenda di Stefano Agostini e nelle decine e decine di casi simili capitati anche molto più recentemente, e che più mi fa incazzare: la prassi consolidata, da parte dei gruppi sportivi, di lavarsene le mani licenziando il "reo" e addossandogli, così, ogni responsabilità, all'insegna del «dagli alla mela marcia!». Come se una squadra non pianificasse scientificamente, e tenesse scrupolosamente monitorata, la preparazione dei propri corridori. O come se, anche volendo credere davvero alla favola del lupo solitario traditore dei sani e genuini valori dello sport, un team non avesse gli strumenti per controllare ciò che i propri atleti combinano nel chiuso delle loro camerette.
Ad essere calpestato è quel sacrosanto principio della responsabilità oggettiva per il quale, ad esempio, se un calciatore si vende le partite è pure la società per la quale è tesserato a risponderne in termini di penalizzazioni, anche qualora non ne venga dimostrato il coinvolgimento diretto nella combine. Da noi, invece, anziché difendere e provare a spiegare una certa metodologia di preparazione, si manda una bella raccomandata al corridore che ha avuto la sfortuna di non superare un test, e tanti saluti.
E si entra e si esce dal Movimento per un ciclismo credibile come dalle porte girevoli dell'Ikea, quando non conviene obbedire alle regole che questo consorzio impone ipocritamente ai propri associati i quali, è bene ricordarlo, non sono comunque vincolati in alcun modo a farne parte, se non per un mero tornaconto di immagine.
Salvo, poi, ricordarsi dei diritti (dell'uomo, prima ancora che dello sportivo professionista) solo quando la posta in gioco è davvero troppo alta per non esporsi, perché magari ne va della sopravvivenza stessa del team. Un esempio per tutti? Il pieno supporto dato dall’allora Team Sky a Chris Froome per il caso salbutamolo: difendendo a spada tratta e in ogni sede il proprio corridore, la squadra si intestò anche la responsabilità di un'eventuale sentenza di condanna, e certamente questo ebbe un peso non da poco nelle valutazioni dei giudici.
Viceversa, qualche anno prima la Milram non si era certo spesa allo stesso modo per Alessandro Petacchi, trovato a sua volta positivo alla stessa sostanza di Froome, consegnandolo così alla giustizia sportiva e alla conseguente, inevitabile squalifica. Una delle tante, troppe vicende all’insegna del claim «stessa camera, stesso servizio, ma prezzi diversi» che ancora non riusciamo a lasciarci alle spalle.