Marco Cavorso, Paola Gianotti e Maurizio Fondriest, fondatori dell'associazione @ Io Rispetto il Ciclista
Editoriale

Bike lane: la nuova sfida di Io rispetto il ciclista

A 10 anni dalla nascita del progetto, i fondatori Marco Cavorso, Paola Gianotti e Maurizio Fondriest hanno fatto un punto della situazione tra successi e insuccessi, dandosi nuovi obiettivi

19.01.2025 20:10

Di sicurezza non se ne parla mai abbastanza, anzi, forse ancora troppo poco. Noi abbiamo sempre cercato, per quanto ci è possibile, di sensibilizzare sull'argomento in ogni sua sfaccettatura anche quelle più difficili da far entrare nella cultura del mondo ciclistico stesso, come la possibilità di pensare a nuovi strumenti di protezione da indossare. In questa sfera semantica il nodo centrale rimane però la sicurezza in mezzo al traffico, il grande tema della condivisione delle strade che dovrebbero essere di tutti e non solo dei mezzi motorizzati. Un tema trasversale che non riguarda soltanto gli atleti professionisti - o agonisti più in generale - di cui solitamente ci occupiamo, ma che riguarda in generale tutti gli utenti deboli della strada, quindi anche chi usa la bici nella sua funzione essenziale di mezzo trasporto, per non parlare dei pedoni; una sicurezza mai come in questo momento necessaria per queste categoria, visto che entriamo (per non dire che ci siamo già dentro) in un'epoca in cui effettuare spostamenti in modo sostenibile per l'ambiente è ancora più una pratica da incentivare rispetto all'utilizzo dell'auto.

Un tema su cui si spendono tante belle parole, ma (come spesso accade) in merito al quale risulta assai più difficile vedere risultati concreti. Fortunatamente di persone che si sono rimboccate le maniche e hanno perseguito l'obiettivo con un q.b. di sana e prolifica testardaggine ce ne sono: tra queste senz'altro Marco Cavorso, Paola Gianotti e Maurizio Fondriest, terzetto variamente assortito che dieci anni fa ha fondato l'Associazione Io Rispetto il Ciclista; un unione di intenti che si è concretizzata in occasione della presentazione del libro Tommy sapeva correre, dedicato al figlio di Marco deceduto dopo essere stato investito in allenamento. Un antefatto dolorosissimo, “la cosa più innaturale che ci sia”, come la definisce Marco medesimo, ovvero sopravvivere a un figlio; un antefatto che lo ha spinto ad impegnarsi perché questo non accadesse di nuovo dedicandosi a perseguire il bene di tutti con il solo impegno da comune cittadino, senza raccolta di fondi, ma soltanto attraverso la sensibilizzazione. Un impegno che è stato portato avanti in compagnia di Paola e Maurizio in anni in cui forse la situazione sulle strade è andata ancora peggiorando, fosse solo per il semplice numero di auto in circolazione. Ieri, presso l'Autodromo del Mugello, si è festeggiato il decennale della nascita del progetto, ripercorrendo un percorso difficile, ma non privo di soddisfazioni che ha portato ad un primo, per quanto parziale e imperfetto, riconoscimento della “distanza Tommaso” ovvero il metro e mezzo come misura indicativa dello spazio che si deve lasciare ad un ciclista nel momento in cui sceglie di sorpassarlo.

Immagine della conferenza
Un momento della conferenza con Giovanni Visconti, Davide Cassani e Daniele Bennati al tavolo @ Io Rispetto il Ciclista

Un percorso difficile ed ostacoli assurdi

La battaglia per Marco, Paola e Maurizio cominciò proprio dal tema del “metro e mezzo” con la volontà di inserire questa distanza di sicurezza all'interno del Codice della Strada. Una battaglia che non partì sotto i migliori auspici visto che il nostro parlamento (in senso lato) sembrava chiudere ripetutamente le porte, anche perché quando invece si trovava qualcuno disposto a depositare una proposta di legge, questa decadeva nel tempo, vuoi perché passavano i governi e le legislature, vuoi perché se ne faceva una questione di colore politico senza riuscire a fare breccia nella cultura politica collettiva. Una cultura su questo tema che andava quindi creata sulle strade, magari replicando i cartelli già presenti all'estero e nello specifico osservati da Marco Cavorso e Maurizio Fondriest durante il viaggio a Santiago de Compostela che invitano gli automobilisti a rispettare i ciclisti, ricordando di superarli ad 1.5 m di distanza di sicurezza.

Un'idea che si è poi trasformata nella bandiera dell'associazione, nel modo più concreto di seminare in tutto il nostro paese un messaggio che doveva entrare nella cultura di tutti. Un'idea che fu inizialmente proposta al Touring Club Italiano, individuato come perfetto veicolo essendo storicamente il primo ente ad essersi occupato di installare cartelli stradali, nonché essendo stato fondato nel 1894 da un gruppo di ciclisti. Il TCI tuttavia si è limitato ad apprezzare l'idea ponendo problemi di fattibilità, che in realtà erano minimi, visto che come ricordava Paola Gianotti, un cartello stradale può costare poche decina di euro. A questo punto hanno scelto la strada della “democrazia al contrario”, come l'ha definita Marco, ovvero di partire dal basso sensibilizzando i singolo amministratori con un gesto tanto semplice quanto efficace: scrivere a tutti i comuni italiani - con l'aiuto preziosissimo dell'ingegnere Cristina Doimo, a cui è stato consegnato un premio speciale - proponendo di installare cartelli stradali che invitassero a rispettare una misura di sicurezza che ancora non era prevista dal nostro Codice della Strada. Se in un primo momento il fenomeno aveva connotati di clandestinità (talvolta la Polizia non acconsentiva proprio perché il cartello non era contemplato dal Codice della Strada e i comuni hanno dovuto giustificarli come cartelli turistici border-line) successivamente ha preso invece l'aspetto di un fenomeno di tendenza che ha portato il numero di cartelli installati a crescere esponenzialmente, superando attualmente quota 10000.

Un risultato tangibile, che ha aperto la strada ad un maggiore interesse anche da parte della politica. Tra i momenti di svolta si ricorda senz'altro un intervento del deputato Mauro Berruto a poca distanza dalla morte di Davide Rebellin, in cui su suggerimento di Marco Cavorso, invitava tutta la Camera dei deputati a prendere posizione e firmare insieme una legge “che non ha bandiera e non ha parte politica”. Un passo fondamentale che ha portato all'effettivo inserimento nel Codice della Strada della “distanza Tommaso, non senza imperfezioni che potranno poi essere corrette; ma intanto è nero su bianco un numero, che prima di avere funzione normativa, ha una funzione culturale di sensibilizzazione.

Se questo non bastasse a dimostrare che il rapporto con la politica è quanto mai fondamentale, essendo la politica lo strumento attraverso cui trasformare una necessità in una legge da rispettare, il concetto era ulteriormente dimostrato dalla conferenza di ieri grazie alla presenza di Andrea Colombo, ex Assessore alla Mobilità del Comune di Bolgona, responsabile del progetto Bologna Città 30, che in questa sede ricordava gli incredibili risultati emersi dopo il primo anno di attivazione dei nuovi limiti di velocità: a fianco dell'incredibile azzeramento di pedoni morti (dato mai registrato dal 1991, ovvero da quando i dati statistici vengono registrati dal Comune di Bologna), si registrano un calo del 31% di incidenti con codice rosso e il dimezzamento delle vittime per incidenti stradali; in parallelo è aumentato l'utilizzo della bicicletta, motivo per cui il numero di incidenti in bici è paradossalmente cresciuto, in un quadro che per il resto appare totalmente positivo e apre nuove possibilità per aumentare drasticamente la sicurezza sulle nostre strade, in questo caso soprattutto nelle aree urbane.

 

Il nuovo obiettivo: le bike lane

Fermarsi adesso sarebbe ovviamente un crimine e l'associazione Io Rispetto il Ciclista si è data un nuovo obiettivo: promuovere la realizzazione di bike lane, corsie ciclabili tracciate direttamente sulle strade, che rispetto alla pista ciclabile tradizionale (per non parlare di quella ciclopedonale) ha il vantaggio di essere più semplice da realizzare e di non ghettizzare i ciclisti fuori dalle strade che invece in teoria appartengono a tutti. Una corsia che avrebbe il pregio di ricordare costantemente la possibile presenza di ciclisti sulle strade, in abbinamento ai cartelli già installati fino ad adesso, nonché di tracciare uno spazio in cui per legge l'automobilista non può transitare se occupato dai ciclisti. Un modo ormai consolidato in tutta Europa per ricordare che la strada va condivisa e che si può viaggiare tutti in sicurezza senza dover confinare altrove una specifica categoria di utenti della strada. È il modo con cui quasi tutte le strade olandesi sono state rese ciclabili (chiunque sia stato nei Paesi Bassi avrà impresse nella mente le strade con corsie dipinte di rosso ad entrambi i lati della carreggiata), ma anche quello con cui negli ultimi anni in Francia si sono resi bike friendly i percorsi cicloturistici in montagna, tanto sui colli - dove sono state dipinte solo salendo, dal momento che in discesa una bici scende forse anche più veloce di un automobile - quanto su strade a rapida percorrenza di fondovalle, dove si doveva evitare che per i ciclisti fosse impossibile spostarsi in assenza di strade secondarie. In questa direzione il nuovo Codice della Strada ha messo qualche vincolo in più alla realizzazione di corsie ciclabili, complicando il cammino di questo nuovo obiettivo nel momento stesso in cui si certificava il raggiungimento dell'obiettivo primario di riconoscere il "metro e mezzo".

Bike lane su una Route National
L'immagine surreale per noi, ma più consueta per i francesi, di una corsia ciclabile a fianco di una strada a 4 corsie @ Google Street View

Un elemento che legittimerebbe una volta di più la presenza dei ciclisti sulle strade, favorendo l'aumento della consapevolezza e quindi, si spera, la riduzione degli incidenti. Una necessità primaria per un movimento che vede il numero di praticanti calare moltissimo nelle fasce di età più basse e rischia di scomparire anche per questo motivo: forti, ma tutto sommato nemmeno troppo imprevedibili, le parole del Commissario Tecnico Daniele Bennati, che si è detto “contento” del fatto che suo figlio abbia scelto di fare un altro sport, nonostante Daniele sia sempre innamorato di uno sport che gli ha insegnato tutto e che ritiene fantastico. Parole che testimoniano la paura delle famiglie di fronte alla possibilità di avere i propri figli sulle strade, a partire proprio dalle famiglie di chi ha fatto del ciclismo un mestiere ed ha lavorato (parola che usiamo non certo per retorica, ma come dato di fatto) sulle strade per tanti anni.

È necessario un cambiamento che appare difficile, ma sicuramente non è impossibile: come ricordavano un po' tutti i presenti (ricordiamo qui che sono intervenuti anche Giovanni Visconti e Davide Cassani, nonché virtualmente anche Gianni Bugno e Alessandro De Marchi con un videomessaggio), anche un paese ritenuto all'avanguardia come i Paesi Bassi, ha in verità raggiunto questi risultati risalendo la china da una situazione disastrosa che vedeva tantissimi ragazzi morire sulle strade almeno fino ai primi anni ‘70. Lo stesso dicasi della Spagna, diventata solo negli ultimissimi anni un esempio di civiltà, non prima che campagne di sensibilizzazione culturale unite alla certezza della pena tanto amata da Beccaria trasformassero un paese solo teoricamente poco ligio alle regole come l’Italia.

 

Parola di CT

Con l'occasione ci siamo avvicinati a Daniele Bennati e Davide Cassani, il Commissario Tecnico della nazionale italiana di ciclismo in carica e quello che lo ha preceduto, per approfondire la loro opinione su questi temi. 

Daniele ci ha rilanciato la provocazione precedentemente fatta in merito a suo figlio, ricordando che “la salute del nostro movimento ciclistico passa innanzitutto dalla sicurezza sulle strade". Ci ha detto: “Io come Commissario tecnico della massima categoria eredito quello che in realtà mi arriva dal basso, dalle categorie giovanili: è evidente una perdita clamorosa nel reclutare giovani corridori, che pensando per la legge dei grandi numeri ci rende anche inferiori rispetto ad altre nazioni ad alti livelli. Quindi la sicurezza stradale è un tema fondamentale, perché oggigiorno le famiglie prima di mandare i propri figli sulle strade qualche domanda se la fanno. Molti meno ragazzi e ragazze si approcciano a questo sport. Io sposo in pieno la campagna sulle bike lane: toglierei tutte le piste ciclabili che ci sono perché sono fatte male. Nel nostro paese non c'è chiarezza: se io prendo la bici da strada e faccio un giro non posso andare su una pista ciclabile che è pensata per bassissime velocità e spesso anche per il transito dei pedoni, ma intanto un automobilista mi invita ad andarci perché la legge mi obbligherebbe a farlo. Le bike lane è vero che non hanno protezioni, ma danno agli utenti della strada la percezione che davi stare attento alla presenza delle biciclette."

Anche Davide Cassani - che ha voluto essere presente nonostante una febbre poco piacevole - si è detto a sua volta favorevole alle bike lane ai nostri microfoni: “Le bike lane sono una bellissima idea: se tu vedi questa striscia rossa, ti rendi conto che in quella strada potresti trovare dei ciclisti, quindi è già un'allerta che dai a tutto coloro che sono su quella strada. In tante situazioni non è possibile fare una ciclabile vera e propria.” Con lui abbiamo anche toccato il tema della sicurezza a tutto tondo, che riguarda il nostro movimento tanto sulle strade in allenamento, quanto in gara con il traffico chiuso: “Siamo nel tempio della velocità (con riferimento all'Autodromo del Mugello), ma anche in un tempio della velocità come questo si guarda innanzitutto alla sicurezza ed è quello che dobbiamo fare noi. Dobbiamo educare i nostri giovani ad un certo comportamento in strada, in allenamento, ma anche in gara. Dobbiamo insegnare che il rischio deve sempre essere calcolato. In entrambe le occasioni una macchina non vedendomi mi ha investito. Da allora tutte le volte che sono sulle strade, quando arrivo ad una rotonda, un incrocio un semaforo, mi guardo attorno e cerco di capire se c'è un pericolo, non solo per quello che faccio io, ma anche per quello che fanno gli altri ed è la prima cosa che dico ai ragazzi che corrono in bici quando li incontro, a partire dagli U23 della mia formazione. Cominciamo da lì. Poi è chiaro che le corse devono essere sicure il più possibile, per quanto ci siano difficoltà che conosciamo tutti. Ma ci dobbiamo impegnare tutti perché la sicurezza è il problema più grosso che abbiamo oggi nel ciclismo.

 

P.S. Ci tenevo come autore dell'articolo ad aggiungere una postilla, una chiosa sentita legata all'esperienza personale. Da ciclista prima e da tecnico delle categorie giovanili adesso mi trovo costantemente sulle strade, che frequenta con la pesante consapevolezza che per centinaia di volte i miei ragazzi o io stesso avremmo potuto essere al posto di Tommaso Cavorso, Michele Scarponi, Davide Rebellin per citarne soltanto tre. Il tema della sicurezza ci riguarda da vicino e riguarda tutti, non solo il mondo del ciclismo agonistico. Per questo motivo non si possono non ringraziare Maurizio, Paola e soprattutto Marco che ha convertito il dolore della perdita in forza di volontà a favore di un'intera comunità.

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Volevo fare lo scalatore ma non mi è riuscito; adesso oscillo tra il volante di un'ammiraglia, la redazione di questa testata, e le aule del Dipartimento di Beni Culturali a Siena, tenendo nel cuore sogni di anarchia.