Pogačar è fortissimo, ma gli avversari neanche ci provano!
E fanno bene, perché il risultato sarebbe lo stesso: però così il divario tra Tadej e gli altri appare ancora più eclatante di quanto non sia. Glissiamo, invece, sull’ennesima tappa tagliata, limitandoci a una prece per il sindaco di Livigno
Domenica, nello stesso giorno in cui è finalmente tornato in Serie B il Sassuolo, affettuosamente (per modo dire) ribattezzato “Scansuolo” dai tifosi di mezza Italia per l’innata vocazione al turn-over ogniqualvolta si trovasse ad affrontare la Juventus, la tappa regina del Giro ha celebrato sì la sublimazione della forza di Tadej Pogačar ma anche, in eguale misura, la rassegnazione dei tanti “scansuoli” a due ruote che, ingenuamente, ci ostiniamo ancora a considerare suoi rivali per la conquista della maglia rosa.
I contendenti di Tadej gareggiano per il secondo posto
Eh già, perché tutto si può dire tranne che, da Geraint Thomas in giù, i presunti avversari stiano cercando di contrastarne in qualche modo la marcia trionfale iniziata a Torino due settimane fa e destinata a concludersi, al netto di sfighe, fra pochi giorni a Roma: semplicemente, gli “altri” gareggiano per il secondo posto e senza neanche far finta di provarci, a rispondere ai fendenti dello sloveno. Che, quando si alza sui pedali, fa il vuoto in misura ancora maggiore di quanto non dipenda dalle sue pur straordinarie doti atletiche. O magari, come accaduto martedì sul Monte Pana, fa il vuoto a sua insaputa, semplicemente salendo del suo passo mentre, alle sue spalle, il resto del mondo arranca.
D’altra parte, la storia ce lo insegna: chi cerca di rispondere a Pogačar in salita, si fa male. A titolo di esempio lo sa bene Richard Carapaz che al Tour del 2021, in quanto leader della INEOS, provò a seguirlo sul Col de Romme quasi per obbligo contrattuale e che, per togliersi ogni dubbio, ci ha riprovato il mese scorso sulla Redoute, alla Liegi. Uscendone, entrambe le volte, con le gambe in croce.
Ancora più recentemente, ad Oropa, era stato Ben O’Connor ad andare fuorigiri dopo quindici pedalate alla ruota del biondo di Komenda, per poi rimbalzare malamente. E allora che fare? Dargliela su, far finta di niente, lasciarlo andare come se nemmeno esistesse, e badare solamente a quel che succede alle proprie spalle. Nella consapevolezza che, per quanto Pogačar possa essere ingiocabile, pur sempre di altri due gradini si compone il podio di qualsiasi corsa: sia essa la Strade Bianche, il Catalogna, la Doyenne o, appunto, il Giro d’Italia.
Solo così si spiegano i due minuti e mezzo abbondanti rifilati dalla maglia rosa, in poco più di cinque chilometri di salita pedalabile, a corridori che si presumono professionisti – e pure forti professionisti! – domenica sul Foscagno. Perché è ovvio che Thomas & C. le avrebbero comunque prese anche se fossero saliti al massimo delle loro possibilità, ma avrebbero limitato, e di molto, il distacco. Ma appunto: a che pro?
Una supremazia da primo della classe, ma popolare
Pogačar è come il primo della classe, quello che i professori ormai neanche ci provano più a prendere in castagna con un’interrogazione a sorpresa, perché tanto sanno che srotolerebbe loro l’enciclopedia a memoria. E però non è antipatico come il primo della classe, tutt’altro, somiglia di più al compagno a cui tutti vogliono bene, nonostante non sia certo quello che ti lascia copiare il compito o ti offre una sigaretta (leggasi: non ti regala mai niente e, anzi, prova a vincere ogni fottuta corsa in cui si mette un numero sulla schiena, vedi Fossano! – ma magari ti regala maglia rosa e occhialini dopo averti saltato nell’ultimo chilometro, se sei un ragazzo di vent’anni a cui ha appena ucciso il sogno della prima vittoria da professionista, vero Pellizzari?).
Così, alla fine, quando vince lui sono tutti contenti, almeno a parole. E forse, in fondo, nemmeno perché Tadej stia veramente simpatico al gruppo intero, ma soltanto perché arrivare alle spalle di un corridore così forte manleva da qualsiasi responsabilità. Della serie «ho perso da Pogačar, mica da Hesjedal, cosa potevo farci?».
Dunque, scordiamoci che qualche uomo di classifica provi ad inventarsi l’attacco fine-di-mondo nelle tappe che restano: né domani al primo passaggio sul Brocon, né tantomeno domenica su una delle due scalate al Monte Grappa. Dimentichiamoci che la tappa di Sappada, venerdì, possa passare alla storia come quella del 1987 in cui – ormai lo sa perfino Milo Infante, ma ciò non esimerà Davide Cassani dal raccontarcelo per la centoventisettesima volta – Roche attaccò a tradimento il compagno di squadra Visentini, strappandogli la maglia rosa.
Niente di tutto questo: a dispetto di un percorso decisamente intrigante al netto di qualche dettaglio, da qui a Roma non aspettiamoci altri colpi di scena che non siano quelli – che nessuno si augura – legati a cadute o malanni che possano mettere ko l’attuale dominatore della corsa. E allora, pensando poi a quel che succederà al Tour de France, non ci resta che augurarci una cosa: che Jonas Vingegaard si rimetta in forma, e al più presto!
Post scriptum: sarebbe stato fin troppo facile tornare a sparare a zero su RCS Sport e su Mauro Vegni oppure, a seconda di come la si pensi, sul CPA e su Adam Hansen, dopo l’ennesima tappa mutilata, l’ennesimo tira e molla tra organizzazione e corridori, l’ennesimo psicodramma causato dal maltempo – variabile che, dopo millemila precedenti, si potrebbe anche iniziare a mettere in conto, anziché precipitare, ogni volta, dal fatidico pero. E allora non lo faremo. Non diremo nulla, limitandoci ad una prece per il sindaco di Livigno, che ci piace pensare ancora là, a bordo strada, la bandierina in una mano e l’ombrello nell’altra, ad aspettare la partenza del gruppo. Invano.