E voi mettereste davvero vostro figlio su una bici?
Strike di gruppo, corridori assiderati o che volano giù da un ponte o contro un lampione: questo il biglietto da visita del ciclismo, alla faccia delle imprese di Pogačar e Van der Poel. E allora non stupiamoci se poi i mancano i praticanti!
Da una parte ci siamo noi, malati di ciclismo che a gennaio mettiamo la sveglia per seguire il Down Under in diretta e che in primavera, a tarda sera, al riparo da colleghi e familiari rompiscatole, nella tranquillità del salotto deserto diamo sfogo alla nostra libidine guardandoci la differita della Freccia del Brabante. Dall’altra ci sono le persone normali, ancora ferme a quando c’era Pantani, che tutt’al più avranno sentito nominare un paio di volte nella loro vita Vincenzo Nibali, e per le quali il ciclismo è quella roba noiosissima che gli rovina il palinsesto della tv del pomeriggio, privandoli di Milo Infante.
Ecco, è da questa consapevolezza che dobbiamo partire quando parliamo della necessità di rilanciare l’immagine del nostro sport, primo imprescindibile passo da compiere per tornare ad alimentare un movimento boccheggiante, con sempre meno praticanti e ancor meno volontari ancora disposti a darsi da fare, essendo per lo più pensionati ormai più vicini al tempo della bara che a quello della gara.
Come trattano il ciclismo i media generalisti italiani?
E di certo non aiuta il trattamento che del ciclismo fanno, in Italia, i media generalisti: per anni e anni si sono interessati alle due ruote solo quando c’era da sguazzare nei fatti di doping, ematico o tecnologico che fosse. E oggi che il fenomeno è stato non certo sconfitto, ma quantomeno ridimensionato, e ci sarebbe invece da raccontare di una disciplina tornata spettacolare come da anni non si vedeva, di che ti vanno a parlare i nostri siti di informazione più popolari?
Della doppietta Fiandre-Roubaix di Van der Poel? Delle cavalcate solitarie di Pogačar e Vingegaard? Delle personalità tutte da raccontare di Evenepoel e Roglič? Ma figuriamoci! Giusto per restare alle ultime settimane, se andiamo a scorrere le famigerate “colonne destre” delle home page dei principali quotidiani nostrani – quelle, per intenderci, riservate ai contenuti più pop – il ciclismo ha fatto capolino, sì, e pure diverse volte, ma per ragioni tali che, a conti fatti, sarebbe perfino stato meglio evitare.
Perché a bucare lo schermo sono stati, nell’ordine, lo strike alla Dwars door Vlaanderen costato la campagna del nord e il Giro d’Italia a Van Aert; il disastro dei Paesi Baschi in cui per poco non ci lasciano le penne Vingegaard e Vine, e da cui sono usciti tumefatti, tra gli altri, anche gli stessi Evenepoel e Roglič; e, per finire, i botti di questi ultimissimi giorni: l’assideramento di Mattias Skjelmose alla Freccia Vallone, il volo giù dal ponte di Finlay Pickering nella prima tappa del Tour of the Alps e quello di Ben Harper, di testa contro il lampione, nella quarta frazione della stessa corsa. Tutti contenuti da colonna destra.
Ciclismo e grande pubblico: facciamoci delle domande
Ecco, se il ciclismo ha la forza mediatica di raggiungere il grande pubblico soltanto in contesti del genere, allora forse è il caso di porci qualche domanda, tutti quanti noi che, a vario titolo, lo raccontiamo. Altrimenti, come possiamo pensare che ad una famiglia possa anche solo lontanamente venire in mente di mettere i propri figli in sella a una bicicletta e, tantomeno, pensare di iscriverli ad una squadra? Molto più sicuro metterli su un barcone in mezzo al Mediterraneo, con tutte queste ong e taxi del mare pronti a scarrozzarli da una sponda all’altra e a mettergli poi in mano l’ultimo iPhone (no perché, a proposito di narrazione, è così che ci vengono raccontati, invece, i fenomeni migratori, vero?).
E con questo pieno di ottimismo e buon umore, buona domenica a tutti! E state certi che, giusto in tempo per il Giro d’Italia, di ciclismo si tornerà a parlare anche per mille altri ameni motivi, dalle tappe annullate per il maltempo agli scioperi, fino a nuovi, imprescindibili, cluster di Covid-19.