Il Mondiale di Gimondi, spartiacque tra due generazioni
Rievochiamo un'epoca d'oro del ciclismo italiano, tra la fenomenale ondata degli anni '60 e il nuovo che avanzò nel decennio successivo. Su tutti Felice, indiscusso sovrano
La settimana scorsa è stata giustamente dedicata a una delle più grandi imprese azzurre nelle corse d'un giorno: il cinquantennale del titolo mondiale vinto da Felice Gimondi sul circuito barcellonese del Montjuic domenica 2 settembre 1973. Essendo stato scritto in abbondanza sull'argomento, eviterò di dilungarmi oltre. Piuttosto, vorrei concentrarmi sul contesto ciclistico italiano di quell'anno, una stagione che costituì per il movimento un passaggio generazionale inequivocabile.
Felice è stato il più grande ciclista italiano tra quelli la cui carriera si è disputata interamente dopo la seconda guerra mondiale. Solo Fausto Coppi e Alfredo Binda possono essere considerati a lui superiori nell'ultracentenaria storia della bicicletta azzurra. Tra i vari motivi che hanno reso immenso il campione di Sedrina, emerge la longevità. Come amava ricordare Bruno Raschi, il sommo cantore del pedale, la carriera di Gimondi è stata un lungo arcobaleno rispetto al breve, ma decisamente più intenso, temporale che fu quella di Eddy Merckx. Quest'ultima può essere associata con il traguardo dove trionfò sette volte tra il 1966 e il 1976: quello di Via Roma, teatro della sua prima e ultima grande vittoria. Il bergamasco, tuttavia, era già stato vincente prima di quel successo inaugurale nella Milano-Sanremo, al Tour de France 1965. Trascorsi 10 anni, lo fu nuovamente al Giro d'Italia 1976, tre mesi dopo il settebello del Cannibale.
Nei suoi primi cinque anni da professionista, prima che Merckx imponesse il suo strapotere, Gimondì vinse quattro grandi giri e, nel 1966, unica stagione in cui non portò a casa una corsa a tappe di tre settimane, conquistò la Parigi-Roubaix, ad aprile, e il Giro di Lombardia a ottobre. Sarebbe ingiusto non ricordare che intorno a questo fuoriclasse fenomenale esisteva un movimento infarcito di campioni, tutti capaci di trionfare al Giro d'Italia o in una classica monumento, se non nel Campionato del Mondo: in ordine anagrafico, Vittorio Adorni, Franco Balmamion, Vito Taccone, Dino Zandegù, Franco Bitossi, Michele Dancelli, Gianni Motta e Marino Basso. L'ordine d'arrivo iridato di Imola 1968, con cinque di questi otto nomi nelle prime sei posizioni, fotografa in modo perfetto una delle più grandi generazioni ciclistiche che l'Italia abbia mai avuto.
A inizio 1973 Felice, poco più che trentenne, era rimasto il solo portabandiera del movimento. Fu allora che il rinnovamento arrivò, sotto la forma d'una variegata trinità: Francesco Moser, l'ultimo erede della gloriosa famiglia ciclistica della Val di Cembra, Giovanni Battaglin, uno scalatore veneto dallo scatto tagliente come un rasoio, e il mantovano Giovan Battista Baronchelli, il primo e unico nella storia a vincere nello stesso anno il Giro baby e il Tour de l'Avenir. Moser fu quello dei tre che patì maggiormente il passaggio di categoria. Gli altri due, invece, furono subito competitivi conquistando il podio al loro primo Giro d'Italia con Baronchelli che, nel 1974, si vide scippare il successo finale negli ultimi tornanti delle Tre Cime di Lavaredo da Merckx, ironia della sorte proprio sulla salita che aveva consacrato Eddy come uomo vincente anche nei grandi giri.
Il nuovo avanzava ma Gimondi era sempre lì, indiscusso sovrano dell'Italbici. In maglia iridata vinse Lombardia e Sanremo, lottando poi alla pari con Merckx e Baronchelli al Giro. Se il 1975 fu una stagione di magra in cui conquistò solo una tappa al suo ultimo Tour de France, l'anno successivo fu sontuoso con il terzo Giro d'Italia, a 11 anni dalla maglia gialla, e la Parigi-Bruxelles, bissata a una decade dall'arrivo solitario del 1966. Felice, in chiusura di carriera fece in tempo a confrontarsi con una ulteriore nuova generazione ricca di talenti. Giuseppe Saronni ne era la punta di diamante ma non va dimenticato neanche Roberto Visentini, corridore di classe eccelsa capace di vincere il Giro d'Italia. Fosse in attività oggi, il bresciano borghese sarebbe il leader indiscusso del ciclismo italiano.
Ricordi d'uno sport non ancora globale in cui Belgio e Italia dominavano un piccolo mondo in procinto d'espandersi.