Tadej Pogacar, campione di tutto, campione di tutti
Perché lo sloveno è il numero primo del ciclismo contemporaneo
«Pogi, nato per vincere»: il cartello esibito da una tifosa ai piedi del podio iridato di Zurigo 2024 è un sintetico ma esaustivo manifesto ideologico. Sì, perché l'ultima impresa di Tadej Pogacar ai campionati del mondo non è soltanto il sigillo alla stagione perfetta di un campione sensazionale, ma è probabilmente lo zenit di un'epoca irripetibile per il nostro sport.
Tadej Pogacar, numero primo del ciclismo di oggi
23 vittorie: un bottino che farebbe luccicare gli occhi di qualsiasi corridore alla fine della carriera, a maggior ragione se impreziosito da una classica o da un successo di tappa in un Grande Giro. Se accostato a Tadej Pogacar, invece, questo numero acquista un significato completamente diverso: vincere 23 gare in una stagione, infatti, è affare da velocisti in stato di grazia (Alexander Kristoff collezionò 20 successi nel 2015, Mark Cavendish arrivò a quota 19 nel 2013, una più di Elia Viviani versione 2018) più che da specialisti delle gare di tre settimane o delle corse in un giorno. Ebbene, il campionissimo sloveno ha varcato una soglia che nessuno, nell'ultimo mezzo secolo di storia del ciclismo, era mai riuscito ad avvicinare.
Se i numeri non bastano, ragioniamo sulla costanza di rendimento e sulla qualità delle sue vittorie: l'attacco a 80 km dal traguardo della Strade Bianche di fine inverno è stato il primo, esaltante capitolo di una stagione in cui il nuovo campione del mondo ha concesso pochi scampoli di gloria alla concorrenza. Già, perché Pogacar ha confermato di essere un corridore globale, per nulla intimorito dalle sfide del ciclismo contemporaneo: l'attacco alla tripletta Giro-Tour-Mondiale - mai riuscita dal 1987 a oggi - era e resta un'idea da brividi non solo perché questo sport è fatto di tabelle di allenamento e cronoprogrammi sempre più metodici e sofisticati, ma anche per la caratura di una sfida che sembrava fuori portata.
Appunto: sembrava. Con buona pace di chi ha sminuito il valore tecnico dell'ultimo Giro d'Italia, Pogacar è diventato il testimonial di una corsa che - con poche eccezioni - ha offerto negli ultimi anni uno spettacolo talora modesto, in cui il controllo esasperato tra i favoriti di turno ha smorzato sul nascere ogni emozione, ogni guizzo fuori copione. Anziché correre al risparmio per preparare il Tour, Pogacar ha onorato in ogni momento la corsa rosa, vestendo (a suo rischio e pericolo) i panni dell'apripista per il compagno di squadra Juan Sebastian Molano. E la sconfitta bruciante a Torino - che gli ha tolto l'opportunità di eguagliare Gianni Bugno, l'ultimo vincitore del Giro ad aver indossato la maglia di leader dal primo all'ultimo giorno - ha acceso in lui una voglia di rivalsa che si è tradotta in uno spettacolo pressoché quotidiano. A qualcuno non sarà piaciuto il suo fluviale monologo in sei atti. Ma, come ogni attore consumato che si rispetti, ha ringraziato il pubblico italiano con un inchino sul traguardo di Bassano del Grappa.
Non l'unico, a dire il vero, del suo formidabile 2024: la scena si è infatti ripetuta a Isola 2000, penultimo arrivo in salita di un Tour de France a cui si era presentato per vendicare le sconfitte dell'ultimo biennio. Certo: le sfortune altrui - leggi: il tremendo incidente di Jonas Vingegaard al Giro dei Paesi Baschi - gli hanno dato una grossa mano. Tuttavia, all'indomani della tappa di Le Lioran, più di qualcuno aveva pensato che la magia potesse svanire da un momento all'altro. E invece, la sua vorace ambizione - temperata dai modi pacati di un ragazzo che esprime in bicicletta una smisurata gioia di vivere - lo ha portato a stendere gli avversari con il micidiale uno-due sui Pirenei, replicato anche sulle ultime montagne alpine e nel gran finale a Nizza. KO tecnico: non c'è altro da aggiungere
Le sfide del futuro
La conquista della maglia arcobaleno dopo 100 km passati all'attacco - e gli ultimi 51 in solitaria - legittima a questo punto nuove e stuzzicanti sfide: se l'assalto in stereofonia ai GT resta al momento soltanto una suggestione - benché alcuni osservatori lo ritenessero possibile già quest'anno, considerato il suo stato di forma - sarà interessante studiare il Tadej Pogacar di domani (e, visto che ci siamo, di dopodomani). I fronti aperti sono tantissimi: il record di vittorie assolute al Tour de France - Vingegaard permettendo - è ampiamente alla sua portata; l'en plein nelle classiche monumento sembra più complicato, se non altro per l'imprevedibilità di una corsa facile ma difficile come la Milano-Sanremo e per la frequentazione fin qui diuturna delle pietre (anche se il ragazzo - ne siamo certi - si applicherà anche su questo terreno). Senza dimenticare le tante gare di lusso del calendario belga, che imporrebbero tuttavia a Pogacar qualche sacrificio sul medio e lungo periodo, e la non meno affascinante sfida a cinque cerchi, alla quale ha rinunciato quest'estate in segno di protesta per l'esclusione dalla Nazionale slovena della sua fidanzata, Urska Zigart.
Pensieri sfuggiti dalla tastiera di un redattore folgorato dall'impresa di Zurigo? Chissà. Ad ogni modo, non c'è altro corridore al mondo in questo momento storico capace di toccare così in profondità le corde dei tifosi. Sì, perché Tadej Pogacar è davvero il campione di tutti. E quella sua esultanza così fanciullesca, così sghemba, così vera sul traguardo della prova in linea dei Mondiali è l'immagine che sintetizza alla perfezione la grandezza e, al tempo stesso, la semplicità di un uomo che dispensa magia e bellezza ogni volta che si alza sui pedali.