Il cervello delle persone sta cambiando. Che fa lo sport, resta fermo?
Non solo il ciclismo, ma tutte le attività agonistiche si trovano (o si troveranno a breve) a fronteggiare una crisi d'identità: che cosa rappresentano in rapporto a un mondo che tra poco le riconoscerà a stento?
«Questa è la storia di un uomo che cade da un palazzo di cinquanta piani.
Mano a mano che cadendo passa da un piano all'altro, il tizio, per farsi coraggio, si ripete:
“Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene. Fino a qui tutto bene”.
Il problema non è la caduta, ma l'atterraggio.»
[La Haine (L'odio), film di Mathieu Kassovitz]
Nel mondo dello sport, soprattutto per chi ne fa un’occasione di business, serpeggia una preoccupazione: le nuove generazioni sono sempre meno appassionate, interessate, fidelizzate a seguire un evento sportivo. A questo si somma il dato molto preoccupante diffuso dall'OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità): “Si stima che quasi i due terzi dei bambini non siano sufficientemente attivi, con gravi implicazioni per la loro salute futura".
In molte discipline sportive si discute, si studia, si provano riforme per attirare l’attenzione dei nati nel nuovo secolo, ma il fenomeno non riguarda solo loro, anche noi più vecchi abbiamo cambiato le nostre abitudini e gusti, il significato stesso ed il grado di interesse che diamo allo sport. È un discorso che supera i confini dell'agonismo sportivo, del suo seguito e, anche se non necessariamente legati, della diffusione della pratica atletica; interessa anche il cinema, la scuola, la lettura, i rapporti interpersonali, la politica e molto altro ancora; i tempi ed i modi con cui guardiamo ed agiamo nel mondo.
Stiamo cambiando radicalmente e rapidamente, un mutamento forse ancora più profondo rispetto a quello avvenuto con l’avvento della società dei consumi, allora a svantaggio della cultura contadina. Gli strumenti che quotidianamente maneggiamo, soprattutto smartphone e social network, non stanno modificando solamente i nostri gusti, ma la percezione cognitiva di ciò che ci circonda e di conseguenza l’interpretazione della realtà, in un piano non di semplice opinione ma più mentale, di ragionamento simbolico. In altre parole, il nostro modo di pensare ed emozionarci sta cambiando più velocemente di molti fenomeni culturali.
Senza allargare troppo il discorso, cosa sta veramente succedendo nello sport? Perché oggi una nazione intera non si ferma per seguire le gesta dell’eroe nazionale del momento, come fu con Tomba e Pantani? Nel 1988 persino il Festival di Sanremo si interruppe per assistere alla prova olimpica di “Tomba la Bomba”. Un paese di commissari tecnici di calcio che diventano all’occorrenza esperti di sci, tattici di corse ciclistiche, skipper di Coppa America.
Un nuovo Pantani non sarebbe più in grado di paralizzare un paese con le sue imprese e, in ogni caso, non lo farebbe allo stesso modo, con la stessa condivisa emozione collettiva; è troppo cambiato il modo di seguire e di raccontare lo sport, ma soprattutto è cambiato il pubblico.
I dati di ascolto degli eventi sportivi evidenziano un trend in calo, ma questi non dicono tutto e si prestano a mille letture, tutte dal loro punto di vista corrette. Un cambio cognitivo così radicale (e chissà dove ci porterà l’Intelligenza Artificiale) altera completamente i significati con cui interpretiamo lo sport, la percezione simbolica di questo e la nostra sensibilità.
Il ciclismo più di altre discipline deve fare i conti con questa rivoluzione culturale. Sport antico, la cui essenza e spirito sono radicati nella fatica contadina, praticamente due epoche culturali fa, non può che entrare in crisi oggi, il che non significa avere semplicemente meno seguito, ma mettere in discussione il proprio stesso essere e fine. Nelle pagine della Tribuna del Sarto si è già scritto di un iniziale cambio profondo negli atleti, in particolare nei ciclisti, un concetto di salute che comincia ad essere al centro di molte scelte, una rimodulazione profonda del senso di epico e temerario di una corsa in bici, talvolta anche in contrapposizione ai desideri degli organizzatori, ex corridori e tifosi.
Lo stesso appassionato di ciclismo ha subìto una metamorfosi: troppo spesso a bordo strada più per farsi inquadrare che per tifare, una presenza costantemente divisa da uno schermo di cellulare, con l’ansia di fermare un momento al posto di viverlo; uno spettatore maniacale oppure superficiale, senza fiducia nei ciclisti professionisti (vera eredità degli anni bui del doping), spesso deluso, non tanto dai risultati, ma dalla forma che fatica a riconoscere; disorientato, con opinioni e desideri contrastanti.
Ed a casa? Il più delle volte soli. Quanti guardano gli eventi sportivi in compagnia? I bar non trasmettono nemmeno più il Giro d’Italia, se va bene la Tv del locale è sintonizzata su un canale informativo, altrimenti su pianti e liti amorose; persino il rito della partita di calcio al bar è sempre più raro. Il vissuto collettivo di un evento sportivo fatica a sopravvivere.
Un ragazzino cosa può cercare ed avere dal ciclismo? Quale narrazione lo può conquistare? Che valore simbolico personale e collettivo potrà mai dare ad un’impresa su una bicicletta? È questo che bisogna domandarsi prima di mettere mano a riforme che possono far perdere di significato di esistere al ciclismo stesso ed allo sport in generale. Non basta trasformare lo sport in e-sport per risolvere la questione; anzi forse valorizzare proprio il suo carattere antico e nostalgico potrebbe essere la chiave vincente nel futuro.
Bisogna domandarsi se il nuovo mondo, sempre più virtuale e metafisico, avrà ancora bisogno dello sport moderno, un fenomeno culturale di per sé molto giovane, poco meno di due secoli, che forse nel momento del suo apice di ricchezza e potere politico ha iniziato la sua decadenza. Non facciamoci ingannare dalle piazze piene a festeggiare un trionfo calcistico, quello è il passato che è ancora presente; nostre emozioni da tifosi che andranno ad estinguersi quando non ci saremo più.
Nessuno di noi conosce dove e come sarà il futuro, ma è ora il momento di riflettere sulla natura ed essenza dei fenomeni culturali che occupano ancora molto spazio nelle nostre vite, lo sport è uno di questi. Non che sia obbligatorio salvare tutto, ma provare a non gettare il bambino con l’acqua sporca è necessario.
Personalmente ritengo che sia giunto il tempo in cui si ribalti la narrazione sportiva, ancora modellata su un modello culturale passato o in via di trasformazione; magari non più solo l’élite e poi forse tutto il resto, ma la più larga e sana base possibile di praticanti dalla quale emerga una competizione di dotati; uno sport non sciovinista, non legato all’immagine di un superuomo, non violento sul corpo dell’atleta; uno sport che sappia rispettare le nuove sensibilità ecologiche, un nuovo mondo più interculturale, senza stereotipi di etnia (e pensare che c’è ancora chi crede che esistano razze umane!), forse superando il concetto stesso di nazione, con la salute al centro del progetto, con nuovi significati simbolici, che magari non saranno narrativi come Coppi e Bartali, ma che sapranno essere utili ed organici nella società del futuro; il tutto senza dimenticare i benefici nella lotta alla sedentarietà.
Forse il minor interesse delle nuove generazioni per ciclismo, calcio e altre discipline sportive non è del tutto un male, potrebbe essere la molla per un cambio radicale di questo mondo, speriamo più “ecologico-umano”; ma, ahimè, temo che l’unico fine che guidi chi ha davvero il potere di scrivere le riforme, sia far sì che lo sport debba essere una voce sempre più economicamente redditizia.
La ricerca affannosa di un format accattivante non potrà mai essere da sola la soluzione, può aiutare ma non è sufficiente; è il contenuto simbolico attuale ad essere sotto pressione. Un domani sarà la capacità di rispondere ai bisogni "culturali", emozionali, di svago a determinare cosa sarà lo sport, ed il ciclismo in particolare, ammesso che sopravvivano.