Vegni santo subito! Ma finché le chiappe di Froome continuano a valere più di una squadra...
Nel giorno in cui sono state ufficializzate le wild card per le corse Rcs, una riflessione sullo stato di salute delle Professional italiane, apparentemente prive di una progettualità che vada più in là di un invito al Giro
Gloria in excelsis Deoooo! È di poche ore fa l’annuncio delle wild card per tutte le corse RCS e – udite udite! – quest’anno San Mauro (Vegni) da Cetona ha scelto di invitare al Giro d’Italia tutte e tre le Professional italiane: Green Project-Bardiani CSF-Faizané, Eolo-Kometa e la neopromossa Corratec, che si aggiungono alla Israel-Premier Tech, avvalsasi del diritto di invito automatico riservato alle migliori compagini della categoria. Le altre, che hanno invece declinato l’invito, lasciando così posto all’intero contingente italiano, sono la Lotto Dstny di Caleb Ewan e la TotalEnergies di Peter Sagan.
E mentre al Vaticano fervono già le pratiche per la canonizzazione del Beato Vegni, vale però la pena chiedersi se questa sia veramente una splendida notizia da celebrare per la Salvezza del Ciclismo Italiano o se, forse, per una volta non sarebbe il caso di guardare al di là del nostro naso e analizzare il problema in una logica di lungo periodo, prescindendo dalla circostanza favorevole di questa stagione (e che favorevole, per inciso, è solo perché le Professional italiane sono rimaste appena tre, tanti quanti erano gli slot a disposizione di RCS che, altrimenti, avrebbe dovuto inevitabilmente fare delle scelte dolorose).
In questi tempi di magra, infatti, pare essere passato l’assioma che solo il Giro possa tenere a galla un movimento, il nostro, ridotto ormai ai minimi termini, e che l’eventuale esclusione dalla maggiore gara a tappe italiana equivalga, per i team interessati, ad una sentenza di morte: perché è così che, negli anni passati, il mancato invito di questo o di quello era stato accolto dalla maggior parte di addetti ai lavori e appassionati. E il dramma è che, spesso, le cose stanno davvero così o ci vanno poco lontane, per le nostre (sempre più) piccole e malandate squadre.
Ma è giusto – e soprattutto, è sensato? – addossare al Giro d’Italia la responsabilità di dover tener su l’intero baraccone? O in questo modo si ottiene soltanto di procrastinare ancora (e ancora, e ancora…) la questione delle questioni?
Parafrasando quel tale che diceva d’essere berlinese, smettiamo di chiederci cosa può fare il Giro per il nostro ciclismo, e iniziamo piuttosto a domandarci cosa possa fare il nostro ciclismo per salvare sé stesso. In altre parole: è mai possibile che non ci sia nemmeno un team la cui ragion d’essere vada al di là della ricerca di visibilità che il Giro, e solo il Giro, sembra in grado di dare ai propri sponsor? Dove sono la progettualità e la programmazione di lungo corso se tutto, ogni anno, rischia di andare a rotoli per un mancato invito alla corsa rosa? E cosa imparano i ragazzi che passano professionisti in queste squadre, se l’unica cosa che si chiede loro è quella di andare in fuga per far vedere la maglia?
Come possiamo pensare che il destino del nostro ciclismo possa dunque dipendere dalla sopravvivenza delle sparute formazioni Professional superstiti e, quindi, aspettarci che sia RCS (ricordiamolo, una società privata, non un ente assistenzialistico) a garantirne il sostentamento sotto forma della mitologica Wild Card? È chiaro che, se le basi su cui poggia sono queste, l’intero palazzo è destinato a crollare, e probabilmente più prima che poi.
Da anni si invoca la rifondazione di una squadra capace di rappresentare l’Italia nel World Tour, tale da restituire a tutta la piramide sottostante uno sbocco ai massimi livelli. E da anni ci sentiamo dire che lo scarso seguito per il ciclismo, la crisi economica, la guerra, le pestilenze, le cavallette… Insomma: pare che le ragioni per tenersi alla larga dallo sport delle due ruote, agli occhi dei nostri manager e capitani d’azienda, superino di gran lunga quelle per entrarci, tanto che i pochi matti che ancora ci mettono del loro sono, perlopiù, vecchi appassionati spinti dall’amore per la bicicletta più che da logiche imprenditoriali.
E il non detto, in realtà, sappiamo tutti qual è: dal ciclismo è meglio stare alla larga “perché non si sa mai”, e allora però sarebbe il caso di chiedersi come mai, proprio in Italia e non in altri paesi altrettanto segnati da scandali doping nel recente passato, l’unica chiave di lettura proposta dai media generalisti sia proprio questa, al di fuori di quelle tre settimane di maggio. Senza contare che il Giro stesso fatica a ritagliarsi uno spazio in prima pagina, perfino sul giornale che lo organizza.
Perché senza voler fare paragoni impietosi con paesi dove il ciclismo è sport nazionale (Belgio e Olanda), se non addirittura orgoglio identitario (pensiamo a cos’è il Tour per i francesi!), perché la Movistar conferma da ormai oltre un decennio il proprio impegno per il movimento spagnolo, nonostante la crisi morda il paese iberico almeno quanto il nostro e altrettanti siano stati gli scandali doping? Perché la Movistar, che pure spende e spande in tanti altri sport, ha comunque risorse importanti da destinare al ciclismo, e la Telecom le riversa solo su calcio, motori e singoli atleti-copertina?
Perché quei pochi grandi marchi ancora rimasti si limitano a tener su l’ennesima squadra in cerca di wild card (pensiamo alla Eolo, che non sembra voglia nemmeno più provarci, a fare il grande salto), oppure preferiscono legarsi ad un team straniero, come ha fatto la Segafredo con Trek? E perché c’è chi è arrivato addirittura alla conclusione che era meglio schiaffare il proprio nome in mondovisione sul fondoschiena di Froome nel gruppetto dei velocisti del Tour, piuttosto che continuare a foraggiare una Professional come, conti alla mano, ha valutato di fare Valentino Sciotti con le sue aziende vinicole, diventate uno dei tanti marchi sulla maglia della Israel?
Il calendario italiano vale forse meno di quello spagnolo, per restare al paragone con la Movistar, o di quello norvegese, pensando invece al progetto Uno-X, fresco di primo, storico (e meritatissimo) invito al Tour de France? A giudicare dal successo crescente della Strade Bianche, dalla qualità che ogni anno è capace di mettere insieme la Tirreno-Adriatico e dal fascino che Sanremo e Lombardia continuano ad esercitare, si direbbe proprio di no. E perfino le corse minori, nell’ultimo lustro, sono molto cresciute grazie alla lungimiranza dei rispettivi organizzatori che, concentrando gli appuntamenti in due-tre periodi ben delimitati nell’arco della stagione, sono tornati ad avere delle startlist degne della loro storia e, finalmente, anche la diretta televisiva.
Eppure, pare che in Italia esista solo il Giro. E allora, scoperchiamolo questo vaso di Pandora: che Vegni le lasciasse tutte a casa, l’anno prossimo, le nostre Professional! E stiamo a vedere quel che succede poi!