La tragedia di Suviana? Ma sì, i morti sul lavoro ci sono sempre stati!
Una posizione inaccettabile, vero? Eppure è quella che va per la maggiore quando si parla degli incidenti nel ciclismo: fatali o comunque gravissimi, come all'Itzulia e alla Dwars, ma considerati inevitabili ancora da troppi addetti ai lavori
Come la fate lunga con questa tragedia di Suviana! Incidenti del genere ci sono sempre stati e sempre ci saranno, non ci si può mica fare niente! Il rischio fa parte di certi mestieri e, anzi, ne costituisce anche un po' il fascino, non trovate?
Aspettate a mandarmi a quel paese per quanto ho appena scritto: perché è vero, me lo meriterei, eppure – mutatis mutandis – è esattamente la retorica che va per la maggiore se, dal mondo del lavoro in senso lato, ci trasliamo a quello del ciclismo: che per i corridori professionisti, sempre lavoro è, anche se spesso ce ne dimentichiamo, considerandolo piuttosto uno spettacolo a nostro uso e consumo.
E così se un portuale resta schiacciato sotto un container o un operaio cade da un ponteggio, è normale che i colleghi organizzino uno sciopero seduta stante: e magari otterranno comunque poco o nulla, ma dimostrano quantomeno di avere una – chiamiamola – coscienza di classe, che li spinge a rivendicare una sacrosanta maggior tutela sul luogo di lavoro.
Il ciclismo e una coscienza di classe ancora da costruire
Se invece alla Dwars door Vlaanderen finisce a terra mezzo gruppo, e l'altra metà va per prati, boschi e pietre giù da una curva del Giro dei Paesi Baschi, passa tutto in cavalleria. Tutt'al più si ottiene di mettere una chicane all'imbocco della Foresta di Arenberg (che per carità, è sempre meglio di niente), ma non ci si azzarda nemmeno a prendere il toro per le corna, e cercare una soluzione sistematica. Si vive alla giornata, insomma, recriminando su un materasso in più o in meno, su dove posizionare una rete, e così via.
Ignorando il fatto che il ciclismo si corre su strade aperte, e che è impossibile pensare di mettere in sicurezza, ogni giorno, centinaia di chilometri delle nostre statali, peraltro quotidianamente letali per moltissimi amatori. E che se, quindi, si vuole davvero ridurre il più possibile il margine di rischio, le protezioni, prima ancora che sulla strada, vanno messe addosso ai ciclisti. Iniziando dai professionisti per poi, una volta abbattuti i costi di produzione, estenderle a chi ogni giorno inforca la bicicletta per piacere o anche solo, semplicemente, per spostarsi.
Ma i corridori, spesso, sono i primi a non volere nulla in più di quanto già indossano: un giubbottino, anche smanicato, con airbag annesso pronto ad aprirsi in caso di impatto per preservare gli organi vitali? «Naaah, troppo scomodo! Troppo pesante! Ci tiene caldo!» (curiosamente, le stesse obiezioni con cui a cavallo tra gli anni novanta e duemila buona parte del gruppo aveva fatto la guerra all’obbligatorietà del casco, chiusa parentesi).
E quindi anche se la tecnologia, volendo, già ci sarebbe – ed è applicata con successo, da anni, nello sci alpino – nemmeno dai diretti interessati viene fatta alcuna pressione per investire in questa direzione. E quando va bene si rimane fermi al palo. Quando va male ci si finisce contro, il palo: vedi Vingegaard, ancora in terapia intensiva per le conseguenze dello strike basco. Così si è sempre corso e così si correrà sempre, c'è poco da fare, cari miei!
Ma davvero le cose sono destinate a restare così per sempre, immutabili?
Da Ascari a Verstappen, da Coppi a Pogacar: qualcosa non torna
Immaginate di essere negli anni '50, di poter intervistare il campione di Formula Uno Alberto Ascari e di chiedergli se si sente sicuro a gareggiare in una scatola di latta lanciata a più di duecento chilometri orari senza cintura di sicurezza e con indosso un elmetto che oggi non andrebbe bene neanche per girare in motorino. Vi risponderà anche lui che la sua auto dispone già delle migliori misure di sicurezza possibili e che, d'altra parte, agli sport motoristici è connaturato da sempre un rischio che ne costituisce anzi l'essenza, e con cui dovremo per sempre fare i conti.
Però se torniamo ai tempi nostri e confrontiamo una vecchia foto ingiallita di Ascari con una di Max Verstappen, ci accorgiamo di quanta strada si sia fatta in termini di sicurezza. Tanto sulle vetture quanto sugli stessi piloti, oggi dotati di dispositivi inimmaginabili non solo agli inizi della Formula Uno, ma anche appena dieci o vent’anni fa.
Ora prendiamo un’altra foto, che so io, di Coppi e Bartali, coevi di Ascari. E poi paragoniamola ad una di Pogačar e Vingegaard: traete voi le vostre conclusioni.