Felice Peli e quel primo Giro d'Italia
Fu un bresciano di vent'anni il più veloce a iscriversi a quella nuova corsa organizzata dalla Gazzetta dello Sport: la sua puntualità gli valse il dorsale numero 1. Purtroppo però quel Giro finì male per lui
La sua bicicletta Bianchi pesava 15 chili, era di ferro con il rapporto fisso ed un solo freno a tamburo che premeva direttamente sulla ruota anteriore. Probabilmente quella bicicletta era costata almeno 100 lire in una Italia in cui un operaio guadagnava poco più di due lire al giorno e lui, che faceva il garzone in una salumeria, sicuramente di soldi a casa ne portava ancora meno.
Il suo nome era Felice e felice quel ragazzo lo era davvero, perlomeno ogni volta che saltava sulla bici e dalla sua casa in Via San Martino nel piccolo borgo di Zanano nel bresciano percorreva chilometri e chilometri su e giù per la Valtrompia nonostante il lavoro in salumeria che non gli lasciava il tempo per allenarsi come avrebbe voluto.
Del resto la bicicletta gli piaceva troppo e non voleva rinunciare al sogno di diventare un corridore professionista. Ed è per questo che spesso i compaesani lo vedevano passare sulle strade approssimative e polverose della valle anche alle prime luci dell’alba o al calar della notte su, verso Magno e verso Brozzo, al cospetto di vecchie selve castanili.
Di cognome quel ragazzo di vent’anni faceva Peli ed era nato a Sarezzo l'11 novembre 1889. Felice Peli aveva intensificato i suoi rudimentali ma intensi allenamenti da quando, nell’agosto del 1908, aveva letto sul giornale sportivo La Gazzetta dello Sport un titolo in prima pagina a sette colonne che annunciava per l’anno seguente: “Il Giro d’Italia organizzato dalla Gazzetta dello Sport. Km. 2500 - 12-30 maggio 1909”, riservato ai “Signori sportsmen”.
Il percorso annunciato dal giornale milanese aveva galvanizzato ancora di più il giovane bresciano con gli arrivi di Trento, Trieste e Nizza, città straniere che poi effettivamente non sarebbero state toccate. Poco importa, da quel giorno di agosto Felice Peli sognava e pedalava, pedalava e sognava.
Il bresciano, curvo in bicicletta con la sua maglia di lana impregnata di polvere e di sudore, due tubolari incrociati sul petto, all’epoca aveva già partecipato ad alcune corse per dilettanti, classificandosi ai primi posti, come quando arrivò terzo al Campionato Bresciano del 1908.
Il fisico del resto ce l’aveva, agile e muscoloso, assistito da un cuore capace di assecondare al meglio lo sforzo sulla pesante bicicletta e che a riposo dicevano che avesse meno di quaranta battiti al minuto. Poi finalmente in un bel giorno del 1909 la Gazzetta dello Sport mantenne la promessa fatta l’anno precedente ed annunciò l’apertura delle iscrizioni al primo Giro d’Italia. Il più lesto a presentarsi con le 10 lire necessarie all’iscrizione fu il nostro Felice Peli, che in cambio ebbe il numero 1 ed una bella medaglia ricordo dagli organizzatori.
Nella notte tra il 12 ed il 13 maggio 1909, con quel numero 1 cucito addosso il bresciano si presentò a Milano per la punzonatura della bicicletta e per la successiva partenza. Alle 2,30 del mattino del 13 maggio 1909 gli organizzatori fecero l’appello e gli misero in mano un volantino: “L’ora è prossima. La battaglia incombe. Gli amatori del ciclismo di tutte le nazioni vi ammirano e attendono. Ognuno ha fra di voi il suo favorito, la sua speranza. Come corridori italiani avete il gran compito di difendere i colori della nazione. Come forestieri ed ospiti, troverete fra i nostri campioni avversari degni e cortesi. […] Il vostro bel gesto di aver saputo osare segna l’inizio di una vittoria. In ciascuno di voi c’è l’anima di un trionfatore”.
Alle 2,53 Felice Peli inforcò la bicicletta e spinse con decisione per generare la prima pedalata insieme ad altri 126 concorrenti assonnati, deciso a far bene fin da subito. Poche ore dopo i corridori passavano infatti dalle parti di casa sua e lui ci teneva a mettersi in evidenza.
Scrive la Gazzetta dello Sport "A Brescia, al chilometro 102, numerosi cittadini attendevano alle barriere di Porta Milano, Porta Stazione, Porta Cremona e Viale Venezia il passaggio dei ciclisti. […] Alle ore 6.15 l'automobile della stampa e quindi quella della giuria che ha seguito la corsa fino a Coccaglio annuncia che il primo gruppo di corridori è a Rovato. Il primo gruppo venne avvistato sullo stradale di Borgo S.Giovanni alle 6.30 precise. Sono in testa Cuniolo, Peli (di Brescia), Canepari ed altri".
All’Ippodromo Zappoli di Bologna, alla fine della prima tappa di 397 chilometri, in sedici si erano già ritirati o erano arrivati fuori tempo massimo ma lui no, il ragazzo della bassa Valtrompia aveva tenuto duro. Felice Peli da quel momento si mise in evidenza spesso nonostante corresse da “isolato”, non avesse cioè una squadra ad assisterlo e partecipasse pagando tutto di tasca propria: il vitto, l’alloggio e quanto necessario per lui e per la sua bicicletta Bianchi.
La gente si accalcava lungo le strade polverose incitando i corridori e Felice Peli ce la metteva tutta, cercando di non farsi staccare dagli eroi del momento come il baffuto Luigi Ganna che alla fine vinse il Giro, o come Carlo Galetti e Giovanni Rossignoli o ancora il giovane Carlo Oriani detto “il Pucia”, poiché non c’era una volta che non facesse la scarpetta al proprio piatto.
Durante la quarta tappa, 347 chilometri da Napoli a Roma, Felice Peli provò a staccare tutti in discesa ma cadde rovinosamente uscendone con un ginocchio malconcio. Arrivò al traguardo oramai fuori tempo massimo, stringendo i denti e pedalando con una gamba sola, impedito da quella ferita profonda e dolorosa che gli arrivava dritta fino all’anima.
Corradino Corradini, giornalista de La Stampa Sportiva di Torino, lo trovò mogio mogio in un angolo del Caffè Aragno di Roma “… incontrai un giovincello striminzito. M’ha fatto pena. Era arrivato da poco, dieci minuti dopo il tempo massimo. Lacero e sporco, ferito nelle povere gambe stenterelle. Voleva telegrafare a casa perché gli mandassero il viatico per ritornarvi. Lo abbiamo aiutato noi. Era caduto nel mezzo della strada ruzzolando poi in un fosso dove era rimasto mezzo svenuto. Poi s’era tastato le membra indolenzite ed aveva ripreso la corsa”.
La Gazzetta dello Sport lo salutò con queste parole "Tre forti, tre buoni dilettanti che avevano affrontato il giro d'Italia con passione ed entusiasmo sono stati eliminati dalla sfortuna. Sanna, Bertarelli e Peli, quest'ultimo ha avuto una sequela di incidenti che lo hanno messo fuori gara, quando questa presentava ancora ottime speranze. Ai tre sfortunati il plauso degli sportsmen e buona fortuna per l'avvenire".
Negli anni successivi Felice Peli e le sue gambe stenterelle non tornarono più al Giro d’Italia ma non rinunciarono alla bicicletta ed al ciclismo. Il ragazzo della Valtrompia fu ancora protagonista di tante corse nel bresciano ed in Lombardia. La passione per il ciclismo lo animava così tanto che a volte ne correva perfino due in un solo giorno, spostandosi in bicicletta da una partenza all’altra.
Felice Peli morì a Zanano il 1° luglio 1956 nella stessa abitazione dove aveva sempre vissuto, al numero 10 dell’angusta Via San Martino che nel 1909 lo vide uscire dal portone di casa per affrontare le otto tappe del primo Giro d’Italia, per mangiare il vento lungo i 2.448 chilometri disegnati dagli organizzatori.
Da quei giorni sono passati centoquattordici anni, le strade ora sono asfaltate, le biciclette dei corridori pesano quasi niente e sono fatte di carbonio. Anche le pesanti maglie di lana sono sostituite da avveniristici tessuti che cercano di andare d’accordo con l’aerodinamica e la fisiologia dei corridori. Da decenni il numero 1 non spetta più a chi si iscrive per primo alla competizione ma viene cucito di diritto sulla schiena del corridore che ha vinto il Giro d’Italia l’anno precedente.
In fondo però poco importa chi avrà il numero 1 nell’edizione di quest’anno, l’importante sarà incontrare tanta gente sulle strade della Corsa Rosa, impaziente di vedere il serpente colorato dei girini.
“Muro di donne, di ragazzi, di uomini, contadini e borghesi, artigiani e signori, marinai, preti, maestri e maestre di scuola con la scolaresca al completo. Vedemmo un domenicano abbagliante. E tutti, al passaggio del Giro, come mossi da un vento, si piegavano avanti, e in quell'attimo si udivano risa di gioia e grida e voci che chiamavano con amore, e incitavano, e subito dopo più niente: come un film vive solo in quell'attimo che attraversa lo schermo, quel muro diventava umano solo nel tempo ch'era illuminato dal Giro. Poi ritornava muro, vento, memoria”. (Anna Maria Ortese nel 1954)