Ben Healy al termine dell'Amstel Gold Race © EF Education-EasyPost
La Tribuna del Sarto

Silvio, tu hai ragione, ma... la narrazione della vittoria non è tutto!

Una riflessione di Martinello ha creato dibattito tra gli appassionati: che vincano sempre gli stessi è un bene per il ciclismo o siamo alle soglie del disfacimento? La questione è culturale; la questione è di come la racconti

28.04.2023 22:33

I pochi giorni, che separano la fine della stagione delle classiche primaverili dall’inizio del Giro d’Italia permettono ad ogni appassionato di ciclismo di tirare il fiato, di fermarsi a riflettere e fare un primo bilancio stagionale. Molto si è scritto sulle grandi emozioni che abbiamo vissuto, la consapevolezza che stiamo vivendo un’epoca straordinaria, con corridori fenomenali e, se mi sbilancio a dire che quest’anno abbiamo assistito alla più bella Ronde van Vlaanderen di sempre, saranno molte di più le persone d’accordo con me che quelle contrarie.

Quindi mi ha molto colpito e stimolato l’analisi fatta da Silvio Martinello in un suo post su Facebook. Egli, con la lucidità che lo contraddistingue, evidenzia il rovescio della medaglia, andando oltre i diamanti che hanno brillato ed incantato le Monumento di quest’anno, la “sbornia” come la definisce lui stesso. In effetti Van der Poel, Pogačar, Evenepoel e, aggiungo oggi controcorrente, il mio amato Van Aert, hanno il valore del miglior vino, quello che conserviamo per un occasione speciale, invece in questi due mesi apriamo (sprechiamo?) uno o due bottiglie a settimana. Martinello forse ci avvisa che presto la nostra cantina rimarrà vuota, che il ciclismo rischia di implodere proprio nel momento in cui esprime il suo maggior spettacolo.

Il dato più preoccupante evidenziato del campione olimpico - non ex perché una medaglia d’oro è per sempre - è quello della distribuzione delle vittorie nelle gare World Tour. Su 59 corse disponibili in calendario fino alla Liegi, 44 sono stati i successi di soli 4 team. Secondo Martinello questi numeri indicano che la temperatura si sta alzando e la febbre è il sintomo che qualcosa nel ciclismo non va. Il rischio è che alcuni sponsor, delusi dai risultati e scoraggiati dallo strapotere di poche squadre, possano abbandonare, lasciando inevitabilmente macerie attorno alle compagini più forti.

Concordo con Silvio quando dice “il movimento non se lo può permettere, c’è bisogno di tutti; dei grandi e dei piccoli organizzatori, delle grandi e delle piccole squadre, dei fuoriclasse e dei modesti gregari. L’impressione è che, nonostante la curva ben segnalata, si stia andando fuori strada con il rischio di farsi male, molto male”. Allora, che fare? Come conciliare lo spettacolo dei grandi campioni con un maggior equilibrio tra le varie compagini? Come non uccidere le piccole corse a cui vengono preferiti lunghi ritiri in altura? E, soprattutto, il ciclismo ha una classe dirigente in grado di scrivere ed attuare una riforma che salvi ed accontenti tutto il movimento?

Nell’articolo di ieri di Marco Gaviglio è già stato affrontato in buona parte il discorso di un maggior bilanciamento economico e sportivo tra i vari team: salary cup e limiti punti UCI per squadra. Si potrebbe ancora aggiungere: distribuzione dei (pochi) introiti che il ciclismo genera, riduzione del numero dei corridori per squadra; queste ed altre ipotesi di cui si può discutere, ragionare, provare a trovare la quadra.

Mi permetto di dire che sono tutte soluzioni che non andrebbero a risolvere i problemi profondi del ciclismo di oggi, non impedirebbero ai 5 o 6 fuoriclasse di dominare in lungo ed in largo - come se poi fosse questo il problema! - e le corse minori seguiranno ad essere in crisi e rimarrebbero sul tavolo le grandi difficoltà della base del movimento dai settori giovanili in su.

Personalmente credo che un grande limite del mondo della bicicletta sia proprio nel ragionare a compartimenti stagni: la strada, l’off road, la pista ognuno per conto proprio; Tour de France e qualche corsa World Tour verso tutto il resto; proseguendo nell’elenco dei separati in casa, equilibrio economico team World Tour slegato dal calendario; ciclismo professionistico e non; organizzazione delle corse completamente avulse dalle politiche per una mobilità sostenibile e per il cicloturismo.

È inevitabile che sia necessario fare delle scelte, nel calendario non c’è più spazio per tutto e per tutti. O facciamo un programma di gare distribuito in due anni oppure bisogna inevitabilmente sacrificare qualcosa per rendere più organica e fattibile la stagione internazionale.

Con organico intendo la necessità di valorizzare tutte le discipline (strada, off road, pista), affinché si possa creare una base di appassionati più larga e giovane possibile. Fattibile, nel senso di consentire a tutti i migliori corridori di affrontarsi tutto l’anno. È un vero peccato, con cotanta grazia di campioni, non avere ancora più scontri diretti tra loro. È lapalissiano che il grande pubblico desidera, è attratto, si appassiona alle grandi sfide, è nel DNA di questo sport.

Non è nemmeno giusto, però, obbligare un corridore ad essere presente ad ogni corsa, il rischio che faccia solo da comparsa è altissimo; ma creare un calendario che favorisca la sua partecipazione ai più grandi eventi è plausibile, alla luce, come abbiamo già scritto in passato, del miglioramento e progresso della scienza dell’allenamento.

Il rovescio della medaglia è che chi rimane fuori dal cerchio di queste gare rischia di sparire definitivamente. Questo impoverimento potrebbe essere fatale per tutto il movimento, perché verrebbe a mancare la base sulla quale costruire il ciclismo di élite. La soluzione non è semplice, certo, ma non è nemmeno solo tecnica. Lo sport in generale, ed il ciclismo in particolare, hanno bisogno di un cambio culturale profondo.

Diffondere a tutta la popolazione la pratica sportiva, far sì che l’esercizio fisico sia uno strumento per il benessere psico-fisico generale di tutti, permetterebbe un diverso approccio allo sport di élite, ne ribalterebbe completamente la narrazione.

Una vittoria del proprio idolo nazionale che nasce all’interno di un programma diffuso di quello sport in tutto il territorio, ha ben altro significato del semplice successo del dotato di turno. Se una grande vittoria del ciclista italiano, speriamo arrivi presto, fosse figlia di un grande e diffuso movimento, di strade sicure, di migliaia di bambini desiderosi di salire in bicicletta e confrontarsi in mille gare locali, e di piccole e grandi corse internazionali ricche di pubblico sui nostri colli, di una politica di mobilità dolce ed ecologica, non avrebbe un altro valore e prestigio e non parleremmo di rinascimento e consolidamento del ciclismo italiano?

Non una semplice infatuazione, dunque, ma vero e proprio amore e passione eterna per le due ruote, come lo fu già in passato nel nostro paese, perché accompagnato allora da una narrazione epica ed in una società che vedeva la bicicletta protagonista nella vita di molti. Se vogliamo salvare lo sport ed il ciclismo in particolare, bisogna cambiare innanzitutto la narrazione di questo e, perché no, il lettore di queste storie.

Non esiste solo chi vince, mille aneddoti si nascondono nel gruppo e mille sono i modi di raccontarli. Ad esempio, è vero che la EF Education-EasyPost ha vinto solo una corsa World Tour in questa stagione fino ad oggi, ma le ottime prestazioni di Ben Healy, il Wild Rover, hanno dato visibilità alla squadra. Molti articoli ed interviste hanno visto protagonista il corridore irlandese, il suo caracollare in salita non è passato inosservato. Inoltre, proprio le strategie comunicative del team statunitense, su social e YouTube, possono essere un esempio di come si possa arrivare al pubblico, veicolare un messaggio, “narrare” anche senza stradominare le corse.

Questo, ovviamente, senza sottovalutare il valore di una vittoria, ma allargando la base narrativa, in numero e contenuti, c’è spazio per tutti, organizzatori e squadre, o perlomeno per chi ha qualcosa davvero da dire e per chi ha orecchie per ascoltare. Questo discorso vale per qualsiasi sport, ma ancor più per il ciclismo, dove lo sponsor rientra del suo investimento attraverso un ritorno d’immagine e visibilità, praticamente il suo racconto. Siamo davvero così sicuri che solo la vittoria garantisce il raggiungimento dell’obiettivo?

Se per mantenere la pace tra i varie squadre, devo far vincere un po’ tutti a scapito dei grandi duelli tra campioni, vuol dire che siamo di fronte ad uno sport malato, sull’orlo del baratro, ma soprattutto ad un ciclismo raccontato male. Senza una vera “rivoluzione narrativa” e culturale non avremo mai la possibilità di controllare la febbre del ciclismo, di concederci talvolta un bicchiere di buon vino in più, un’esaltazione effimera senza il timore che sia l’ultima.

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