Il mai finito processo a Mauro Vegni
Chiamato undici anni fa a sostituire Zomegnan nel ruolo di direttore del Giro per ricucire il rapporto con corridori e squadre, "Mister Limorté" ha peccato in senso opposto, cedendo troppo spesso alle pressioni del gruppo
Due sono le cose terrene visibili ad occhio nudo dallo spazio: la grande Muraglia Cinese e il fegato di Mauro Vegni. Quante ne ha dovute passare il direttore del Giro d’Italia in ormai più di un decennio al comando delle corse targate RCS? Le polemiche per i ritiri in massa causa Covid-19 di questa edizione – Remco Evenepoel in testa – sono solo le ultime di una serie talmente lunga che, probabilmente, avrebbe già stroncato la pazienza di chiunque. Ma non quella di Mister Limorté, a cui va riconosciuta una capacità di incasso fuori dal comune.
Solo in questi ultimissimi giorni, infatti, al fuggi-fuggi della maglia rosa e di un’altra ventina di corridori positivi al tampone si sono aggiunti, nell’ordine, l’ufficializzazione del taglio del Passo del Gran San Bernardo, causa rifiuto delle autorità svizzere di sgombrare dalla neve il loro versante; la richiesta, da parte del sindacato dei corridori, di neutralizzare per il gran freddo la scalata e successiva discesa dal Passo delle Radici, nella prima parte della tappa di lunedì scorso; e ieri la brutta caduta che ha messo fuorigioco Tao Geoghegan Hart, vale a dire uno dei principali pretendenti al successo finale tra i corridori superstiti. Senza contare, alla vigilia del Giro, le incertezze diffuse dalla stampa belga – e alimentate dallo stesso Evenepoel – circa la fattibilità di portare la carovana rosa in cima alla strettissima salita di Monte Lussari e quindi, di riuscire effettivamente a disputare nella sua interezza quella che dovrebbe essere la tappa decisiva di questa edizione.
In pochi giorni abbiamo dunque assistito ad un condensato di tutte le sfighe, i pasticci e gli smacchi che hanno contraddistinto l’esperienza di Vegni alla guida del ciclismo targato Gazzetta. Iniziamo, appunto, dalle sfighe, vale a dire gli episodi rispetto ai quali poco o nulla si può addebitare al nostro, e che si possono riassumere nei tantissimi ritiri per infortunio o malattia che, negli anni, hanno impedito a molte delle stelle più attese di portare a termine la loro partecipazione al Giro. Pensiamo, ad esempio, a Daniel Martin, attesissimo nel 2014 in quanto irlandese nell’anno della grande partenza dalla sua stessa isola, e sfracellatosi su un tombino già nella cronosquadre di apertura tra le strade di Belfast con conseguente, immediato ritiro. O al mancato duello, un anno prima, tra Nibali e Wiggins, stante il precoce abbandono del britannico che era calato in Italia da detentore dell’ultimo Tour de France. Ma l’elenco di defezioni eccellenti sarebbe davvero lunghissimo fino ad arrivare, appunto, a Vlasov e al già citato Geoghegan Hart, per restare a quest’anno. E d’altra parte si tratta di un fattore da mettere in conto quando si parla di corse di tre settimane, non certo addebitabile a chicchessia.
Numerosi, però, sono oggettivamente anche i pasticci accaduti nell’epoca-Vegni, e rispetto ai quali il nostro è chiamato a rispondere in virtù del ruolo apicale ricoperto, senza per questo volerne restringere esclusivamente al diretto interessato le responsabilità: frequentissimi, ad esempio, sono stati i tagli alle tappe più attese, dovuti naturalmente al maltempo: a volte solo presunto. E se non si può rimproverare la direzione corsa per le nevicate in sé, né per le previsioni meteo eccessivamente pessimistiche, le si può invece recriminare la mancata organizzazione di percorsi alternativi all’altezza e, soprattutto, il fatto di non averli mai comunicati con il dovuto preavviso, essendo da mettere in conto che i passi oltre i duemila metri possano risultare ancora impraticabili a maggio. E dunque, al momento della presentazione del percorso per l’anno a venire, sarebbe sempre doveroso ufficializzare anche i “piani B”, onde evitare di dover digerire, dalla sera alla mattina, un Tonale messo al posto del Gavia, oppure un tappone dolomitico ridotto a tappa unipuerto.
Per non parlare, poi, di singoli episodi ancora più eclatanti: come il pasticcio delle bandierine sventolate per neutralizzare la discesa dello Stelvio, decisione estemporanea e impunemente ignorata da Quintana, nell’episodio che, di fatto, decise l’assegnazione della maglia rosa del 2014; oppure l’asfalto-saponetta di Bari, sempre in quella stessa edizione, o le buche di Roma nel 2018. Oppure, ancora, la vergogna di Morbegno 2020 quando i corridori, non volendo sciropparsi una tappa di 250 km a fine Giro, scioperarono adducendo come scusa la pioggia ed il freddo (ma quel giorno c’erano 13 gradi!) e ottennero che la partenza venisse spostata un centinaio abbondante di chilometri più avanti.
Simili precedenti, oggettivamente, pesano sulle spalle di Vegni e costituiscono degli smacchi al prestigio della corsa. Arrivando, forse, a spiegare il perché di certi ritiri affrettati come, appunto, è apparso quest’anno quello di Evenepoel: non tanto per la positività in sé – rispetto alla quale l’ultima parola spetta naturalmente allo staff medico della squadra – quanto per la tempistica e le modalità di comunicazione che hanno fatto pensare, se non ad una fuga, quantomeno ad una mancanza di rispetto nei confronti dell’organizzazione, che nessuno ha avuto la cura di informare preventivamente.
Hanno destato scalpore, in particolare, le accuse esplicite rivolte ad RCS Sport dal medico della Soudal-Quick Step, Yvan Vanmol, secondo il quale non sarebbe stata adottata alcuna misura anti Covid-19 e le conferenze stampa si sarebbero tenute in luoghi troppo angusti e affollati. Critiche apparse davvero eccessive e ingenerose alla luce del contesto attuale, ben diverso da quello degli anni che ci siamo appena messi alle spalle: pur sulla scorta dei tanti casi già emersi tra Liegi e Romandia, infatti, quali strumenti avrebbe avuto, Vegni, per imporre e soprattutto far rispettare eventuali restrizioni, in assenza di un dispositivo di legge e venendo meno la stessa emergenza pandemica, dichiarata chiusa dall’OMS il 5 maggio? E perché la Soudal-Quick Step, se davvero era così preoccupata, non si era premunita perlomeno di far indossare le mascherine a tutti i suoi tesserati, a prescindere da quanto fosse nelle disponibilità del Giro?
Facile scaricare le responsabilità su RCS e su Vegni, sempre più spesso individuato come capro espiatorio. D’altra parte ogni anno, e a prescindere dalla pandemia, siamo abituati a vedere corridori – soprattutto i velocisti – salutare dopo una decina di tappe per poi ripresentarsi al via di gare che si svolgono in contemporanea con lo stesso Giro: nel 2021, ad esempio, Tim Merlier vinse a Novara la prima frazione in linea, il 9 maggio, e fece in tempo a ripetersi alla Ronde van Limburg nemmeno due settimane più tardi, il 24 dello stesso mese, quando il Giro era ancora in pieno svolgimento. E tutto questo grazie al via libera ottenuto dalla stessa RCS Sport che, se avesse voluto, avrebbe invece potuto opporre il proprio diniego, impugnare il regolamento UCI e costringere Merlier ad attendere la fine della corsa rosa prima di tornare a mettersi un numero sulla schiena. In quella stessa edizione aveva fatto discutere anche l’abbandono repentino di Caleb Ewan, andato a casa alla fine della prima settimana con due tappe in saccoccia, ufficialmente per un fastidio al ginocchio mai del tutto chiarito e, comunque, evidentemente ben presto smaltito, poiché meno di un mese più tardi l’australiano avrebbe vinto altre due volte anche al Giro del Belgio.
Ma pensiamo anche alla fuga di Marcel Kittel dopo essersi imposto in due delle prime tre tappe irlandesi del già citato Giro 2014, andato a casa senza avere pedalato nemmeno un metro sulle strade italiane. E più in generale alla sistematicità degli abbandoni, ogni anno, di tanti altri sprinter all’approssimarsi delle grandi montagne. Tutte scelte legittime e per certi versi comprensibili, trattandosi di corridori senza ambizioni di classifica, ma che fanno storcere il naso per la facilità con cui vengono prese e comunicate. Come se non ci si preoccupasse nemmeno di salvare le apparenze e di avere una forma di riguardo nei confronti dell’organizzatore. Un riguardo che, ormai, sembra venir meno perfino dalla stessa Rai, a giudicare dalle proposte che Alessandro Fabretti, dal palco del Processo, ha sbattuto in faccia al povero Mauro per rendere più spettacolare il Giro quando ancora, a due tappe dalla partenza abruzzese, qualsiasi appunto appariva decisamente prematuro.
Ricordiamo che Vegni era stato chiamato alla guida del Giro proprio per dare un segnale di cambiamento rispetto alla direzione di Angelo Zomengnan, contrassegnata da anni di crescente tensione tra RCS Sport e i corridori, che denunciavano trasferimenti extra-large e tappe-monstre. L’apice dello scontro si raggiunse nel 2011 con la frazione di Gardeccia, di circa seimila metri di dislivello, e quella che avrebbe dovuto proporre, in successione, Crostis e Zoncolan, ma che vide l’ammutinamento della carovana, Contador e Bjarne Riis in testa, e portò all’annullamento della prima delle due salite friulane, peraltro mai più riproposta in seguito. Zomegnan aveva tirato troppo la corda, inimicandosi corridori e direttori sportivi e, per questo, era stato accompagnato alla porta da RCS Sport. Al suo posto era stato promosso sul campo Mauro Vegni, già da anni nella struttura del Giro e considerato molto vicino alle istanze dei ciclisti, proprio per ricostruire con questi ultimi un rapporto più collaborativo.
Ecco, a distanza di tanti anni, l’impressione è che il gruppo, di questa vicinanza e di questo spirito collaborativo, abbia approfittato, attribuendo a Vegni anche colpe non sue e prendendosi delle libertà che mai si sarebbe preso con Zomegnan prima di lui o, oggi, con il deus-ex-machina del Tour, Christian Prudhomme. E allora, per il bene del Giro nonché dello stesso fegato di Mauro Vegni, non è forse arrivata l’ora di un nuovo cambio al vertice di RCS Sport?