Aboliamo gli under 23 e facciamoli correre nelle Professional
Nel ciclismo dei Pogačar e degli Evenepoel non ha più senso una categoria che produce un campione europeo a crono (Segaert) più vecchio di quello élite (Tarling). Né ce l’hanno i team di Serie B sempre appesi alle wild card, e allora…
Alec Segaert è nato il 16 gennaio 2003, ha dunque vent’anni compiuti e sta portando a termine la sua prima stagione da professionista. Milita nella Lotto Dstny, facendo in realtà la spola tra la squadra maggiore e la formazione under 23, con cui quest’anno ha preso parte alle più importanti corse di categoria: Liegi e Roubaix éspoirs, Giro Next Gen e Tour de l’Avenir. Ad agosto ha vinto la medaglia d’argento nella cronometro iridata tra i suoi pari età, battuto solo dal nostro Lorenzo Milesi. Deve ancora fare il suo esordio in una corsa World Tour e, con ogni probabilità, questo accadrà soltanto nel 2024. Ieri, intanto, s’è tolto la soddisfazione di conquistare il titolo europeo under 23, sempre a cronometro.
Joshua Tarling è nato il 15 febbraio 2004 (tredici mesi esatti dopo Segaert e a ventiquattr’ore dalla morte di Marco Pantani, fra l’altro…), ha quindi appena 19 anni ed è a sua volta al primo anno da pro’, alla INEOS Grenadiers. Nonostante la giovanissima età, in questa sua prima stagione con i grandi ha già corso tantissime prove World Tour: UAE Tour, Parigi-Nizza, Harelbeke, Roubaix, Amstel, Freccia Vallone, Amburgo e Renewi Tour. Ad agosto è stato medaglia di bronzo della crono mondiale, alle spalle di Evenepoel e Ganna, e sempre ieri ha vinto quella europea, davanti a Bissegger e Van Aert. E attenzione: stiamo parlando delle prove élite, mica di quelle under 23!
Già, gli under 23: che diavolo di senso ha ancora di esistere, questa categoria? Sono anni che se ne parla, perlomeno da quando, nel 2006 a Salisburgo, un professionista fatto e finito si laureò per la prima volta campione del mondo. Allora fu un non ancora ventenne Gerald Ciolek che addirittura l’anno prima, a 18 anni, era già stato capace di laurearsi campione nazionale assoluto battendo un mostro sacro come Erik Zabel. Da quel momento, e per diverse edizioni dei mondiali, si è dibattuto sull’opportunità di far gareggiare assieme i veri under 23 con quanti, invece, già militavano in squadre Professional. Poi, ad un certo punto, è caduto pure l’ultimo tabù, e anche i tesserati per i World Team hanno potuto cimentarsi in quello che, una volta, si chiamava mondiale dei dilettanti. Alla faccia dell’anacronismo.
Ma ormai la questione non è nemmeno più limitata alle rassegne mondiali e continentali di categoria, il cui valore, in fondo, è sempre stato molto relativo. Da quando hanno fatto irruzione sulla scena internazionale campioni di precocità come Tadej Pogačar e Remco Evenepoel – e senza dimenticarci, tra gli altri, di Tom Pidcock, Juan Ayuso, Carlos Rodríguez, Olav Kooij, Cian Ujitdebroeks e, ora, anche di Tarling – è finita del tutto fuori dal tempo quella categoria cuscinetto tra juniores ed élite che, infatti, sempre più corridori saltano a piè pari, o bazzicano tutt’al più per una sola stagione. Quanto successo ieri, quando nello stesso giorno è diventato campione d’Europa dei big un ragazzo addirittura più giovane del vincitore tra gli under poche ore prima, sancisce anche simbolicamente la morte definitiva della categoria.
Categoria che magari andrà comunque ancora avanti per qualche anno ma che, scommettiamo, è inevitabilmente destinata a scomparire, per essere sostituita da qualcos’altro: e la speranza è che possa essere soppiantata da una riforma strutturale del sistema di accesso al professionismo che converga con un ripensamento della categoria Professional, l’altro grande guazzabuglio di questa nostra epoca. Perché se c’è un altro ambito del ciclismo attuale rimasto né carne né pesce è proprio quello che concerne i team di seconda fascia: quelli, per capirci, che per partecipare alle corse più importanti del calendario hanno bisogno dell’invito. Anche se poi, tra di loro, ci sono le squadre fresche di retrocessione dal World Tour che dispongono non solo della wild card automatica ma addirittura del privilegio, negato anche ai top team del circuito principale, di rinunciare ad un impegno che non rientri nei loro piani: alla faccia dell’equità!
Tanto nella fascia di età under 23 come tra le Professional, poi, si può trovare di tutto: il campione già affermato ed il pedalatore senza avvenire; la squadra perfettamente sovrapponibile, per budget e organizzazione, alle WT, e quella che ancora va avanti a pane e salame, barcamenandosi al limite del professionismo. E allora perché non fare tabula rasa e unire questi due mondi in un’unica dimensione che abbia, finalmente, una finalità chiara?
Già, ma come? Ad esempio, si potrebbe abolire la categoria under 23 ma imporre a tutti i corridori in procinto di passare nel World Tour almeno una stagione in una Professional, consentendo a queste ultime di ottenere in prestito (meglio se gratuito) i migliori talenti già messi sotto contratto dai top team. Si darebbe così una boccata d’ossigeno ai bilanci asfittici di molte squadre di Serie B, che potrebbero rimpinguare gli organici con corridori di prospettiva senza sobbarcarsi l’onere degli stipendi, e vedere al contempo aumentata la loro competitività. In questo modo si otterrebbe dunque anche un pur minimo – ma importante – ribilanciamento dei valori in campo, in un ciclismo oggi sempre più dominato da pochissime squadre capaci di spazzolare il meglio sulla piazza. Come bene evidenzia il podio tutto-Jumbo della Vuelta appena conclusa.
Pensiamoci: se questa regola fosse realmente esistita, nel 2019 Pogačar ed Evenepoel si sarebbero affacciati al professionismo correndo – ad esempio – per la Bardiani e la Sport Vlaanderen, ed è lecito pensare che avrebbero fatto strage di corse di livello Pro Series o .1. Le prestazioni dei due avrebbero regalato enorme visibilità alle rispettive squadre, e non è escluso che questa visibilità si sarebbe potuta tradurre nell’accordo con qualche nuovo sponsor. Tadej, magari, avrebbe avuto ugualmente l’occasione di esordire subito in un GT – che nel caso, naturalmente, sarebbe stato il Giro anziché la Vuelta – e Remco avrebbe potuto prendere contatto con le pietre delle Fiandre e le côtes delle Ardenne, non avendo alcuna difficoltà, la Sport Vlaanderen, ad ottenere le wild card per le classiche belghe.
Poi, dal 2020, i due si sarebbero ugualmente accasati alla UAE e alla Quick Step che già se ne erano assicurate in precedenza i cartellini, e le loro carriere sarebbero proseguite esattamente come le conosciamo oggi. Avendo, però, portato nel frattempo un indubbio beneficio anche a due piccole squadre che, la stagione successiva, avrebbero potuto ripetere l’operazione attingendo ad una nuova infornata di talenti. E così via.
Poi, per carità: lo sloveno ed il belga si sono rivelati fenomeni tali da non avere bisogno di una stagione di limbo per consacrarsi tra i big, ed in questi due casi i vantaggi sarebbero stati soprattutto delle Professional che si sarebbero potute giovare delle loro prestazioni per almeno un anno. Ma quanti altri giovani, invece, beneficerebbero enormemente di una o due annate di vera transizione, in cui crescere senza pressioni?
Tutto il sistema di squadre e di corse che oggi ricade nel mondo under 23 si potrebbe invece traslare ad under 21, in modo da avere una fascia di età e di rendimento più omogenea e da garantire, comunque, anche la crescita più graduale di chi magari non sia ancora riuscito a mettersi in mostra. D’altra parte, non sarà un caso se oggi, chi ha i numeri, a vent’anni è già un vincente: è indubbio come fin dagli juniores, infatti, allenamento e preparazione siano ormai curati in maniera tale da produrre corridori già molto vicini agli standard dei professionisti, e di questo anche il sistema deve prendere atto, adeguandosi.