RCS: se non ne hai voglia, basta dirlo!
Il principale organizzatore italiano ha davvero a cuore tutte le proprie corse, o ne considera alcune una seccatura? A giudicare dal trattamento riservato alla Milano-Torino, il dubbio c’è
Tutti noi abbiamo ancora negli occhi lo spettacolo memorabile della Milano-Torino di mercoledì, partita dalla magnifica cornice di Rho per concludersi nell’ancora più suggestivo palcoscenico di Orbassano e vinta, dopo un’avvincente e adrenalinica traversata della sempre incantevole Pianura Padana, da quell’autentico fuoriclasse che risponde al nome di Arvid de Kleijn Si fa per dire, ovviamente, ma proprio questa ultima versione della più antica corsa ciclistica al mondo, umiliata al rango di mera tappa di trasferimento tra l’hinterland milanese e quello torinese, ci spinge ad interrogarci sul significato stesso di questa e altre gare. E su tutto quello che ruota attorno alla promozione del prodotto-ciclismo da parte del principale organizzatore italiano, RCS.
Già perché, piaccia o no, nel sistema consumistico di cui facciamo parte anche il ciclismo è, prima di tutto, un prodotto da posizionare sul mercato, e il primo passo è dunque quello di costruire un brand ben definito per ciascun evento. Questo RCS lo sa, tant’è vero che ormai da anni vende il Giro d’Italia come “la corsa più dura del mondo nel paese più bello del mondo” e che ha lavorato sul naming di altre due prove storiche come il Giro del Piemonte ed il Giro di Lombardia diventati, rispettivamente, GranPiemonte (tutto-attaccato) e ILombardia (anche qui: tutto-attaccato con addirittura l’utilizzo di un’unica “elle” a far da ponte tra articolo determinativo e nome proprio della regione). La stessa Milano-Torino, poi, giocando sulle targhe delle città di partenza e di arrivo, assurge nientemeno che a MiTo.
Ma affinché le strategie di marketing funzionino, al brand con cui si vuole connotare il prodotto deve corrispondere un’effettiva e specifica identità. Niente da dire, ad esempio, per quanto riguarda la “Strade Bianche” che, non a caso, è la creatura RCS più recente, lanciata già nel nuovo millennio secondo tutti i crismi che sottendono ad una logica commerciale: una corsa che si staglia per originalità nel calendario internazionale e dal nome evocativo che trova perfetta corrispondenza nel percorso proposto. Ingredienti che ne hanno costituito l’immediato successo, sia tecnico che di pubblico e che, anzi, hanno spinto all’emulazione corse storiche come la Gent-Wevelgem o la Parigi-Tours, nonché a tentativi più o meno espliciti di imitazione, come la spagnola Jaén Paraiso Interior nata appena un anno fa.
Il Lombardia è sempre il Lombardia, sia che si concluda a Como scalando il Civiglio ed il San Fermo; sia che arrivi a Bergamo passando per la salita di Berbenno e Bergamo Alta o proponga qualsiasi altro tipo di percorso, altimetricamente impegnativo, sulle Prealpi lombarde: l’importante è che venga rispettata la cifra tecnica che caratterizza l’ultima grande classica dell’anno, con l’accortezza di prevedere sempre un passaggio sul Ghisallo. Così come poco cambia, alla Sanremo, se il via viene dato effettivamente da Milano o magari da Abbiategrasso, purché poi si rispetti la sequenza di Turchino, Capi, Cipressa e Poggio, magari giusto con qualche minima variazione sul tema che, comunque, non ne snaturi le caratteristiche di corsa impronosticabile e contendibile fino all’ultimo metro. Per non parlare di un’altra classica monumento come il Giro delle Fiandre che ha cambiato più volte sia le sedi di partenza ed arrivo che i muri affrontati, ma senza mai perdere un grammo del proprio fascino proprio perché, a non venire mai meno, è stato il legame con le sue pietre. Così come il Giro d’Italia rimane tale anche quando, un anno sì e uno no, parte dall’estero: anzi, questi sconfinamenti contribuiscono ad accrescerne l’appeal internazionale.
Tornando invece alla Milano-Torino, qual è la sua ragion d’essere? Qual è il senso di stravolgerne continuamente il percorso e addirittura la collocazione in calendario? Declinante al punto da scomparire nel 2008, era stata resuscitata nel 2012 passando dalla primavera all’autunno e valorizzando la salita al Colle di Superga, diventato sede d’arrivo: un indurimento del percorso che, unito alla vicinanza con l’imminente Giro di Lombardia, ne aveva fatto una corsa quasi irrinunciabile per tutti coloro che puntassero al successo nella classica delle foglie morte e per gli stessi uomini da grandi giri. E allora perché, già nel 2022, si è deciso di ritornare al passato, cioè a marzo, e per giunta privando la MiTo di qualsiasi spunto tecnico? Anche senza arrivare in cima a Superga, perché non prevedere comunque un passaggio su quella o su altre delle tante e belle salite che circondano Torino e che, non più tardi dello scorso anno, erano state il teatro della tappa più spettacolare di un Giro d’Italia altrimenti moscissimo?
Discorso molto simile si potrebbe fare anche per il Giro del Piemonte, che continua a saltare da una città all’altra – e ci starebbe anche – ma, soprattutto, a non avere una sua identità, oscillando, di anno in anno, tra percorsi per velocisti puri e altri per passisti-scalatori, fino all’unicum dell’edizione 2019 vinta da Egan Bernal in vetta ad un altro santuario, quello di Oropa. E dunque, di cosa parliamo quando parliamo di Milano-Torino e GranPiemonte? Sono corse che ad RCS interessano davvero, o per l’azienda rappresentano solo delle rotture di scatole da assolvere con il minimo impegno? E chi ci assicura che, un giorno, non finiscano in soffitta come il defunto Giro del Lazio? Se questi eventi rappresentano un fastidio, perché non cederne i diritti ad altri soggetti che possano avere l’interesse a valorizzarli? O si preferisce tenerli in casa, pur non sapendo bene che farne, proprio allo scopo di evitare la possibile affermazione di altri organizzatori?
E chissà se la Federazione Ciclistica Italiana avrà tenuto conto anche di questo, nel momento in cui ha affidato proprio ad RCS – tramite bando pubblico, s’intende – anche l’organizzazione di Giro d’Italia femminile e under 23 contribuendo, di fatto, al consolidamento di un monopolio? Perché che alla stessa organizzazione competano tutte le declinazioni di una grande gara a tappe, come già avviene per Tour e Vuelta sotto l’egida di ASO, appare in effetti la soluzione più logica per una sua valorizzazione complessiva. Ma a patto che questo si dispieghi, appunto, all’interno di una strategia coordinata che RCS non sempre sembra avere. Per tacere del trattamento che sui media di famiglia – Gazzetta dello Sport, Corriere della Sera e LA7 – viene riservato al ciclismo in generale e, in particolare, agli stessi gioielli di casa: sempre più nascosti nelle pagine interne dei quotidiani, pressoché ignorati dal canale televisivo, salvo salire raramente alla ribalta, ma più facilmente per i soliti rumors legati al doping, che non per l’impresa del Pogačar o dell’Evenepoel di turno. E anche in questo, ahinoi, il paragone con ASO ed Équipe è davvero impietoso.