Pas normal? Il ciclismo che non si libera dalla cultura del sospetto
Una risposta a un recente articolo di Eric Jozsef che affronta il tema del doping e dei rischi correlati a possibili nuovi scandali. E con le nuove pratiche come la mettiamo?
Pas Normal.
(Non normale. Scritta apparsa sulle strade del Tour 2024)
Le prestazioni di altissimo livello osservate, ammirate, registrate da strumenti sempre più sofisticati, hanno scatenato come sempre “i soliti sospetti”, titolo di un interessante articolo di Eric Jozsef per La Stampa del 16 luglio.
Il giornalista francese di Libération sottolinea l’importanza dello sport, e specificamente del ciclismo “popolare, democratico e partecipato gratuitamente dal pubblico”, come modello al centro della vita collettiva.
Il pericolo evidenziato da Jozsef è che un eventuale nuovo scandalo doping possa erodere due principi fondamentali delle democrazie liberali: il merito come corollario dell’ascesa sociale e la fiducia verso le istituzioni e le agenzie di regolamento.
In particolare afferma che “il populismo nelle nostre democrazie si nutre della sensazione che in un mondo in profonda trasformazione, geopolitica, economica, ambientale e tecnologica, le autorità pubbliche non abbiano più la capacità di intervenire e di proteggere i propri cittadini”. Il peso economico nel controllare il micro-mondo del ciclismo, sempre secondo il giornalista di Libération, è piuttosto relativo rispetto alla valenza simbolica che ha nell’alimentare questa distanza verso le autorità e i governanti, nel fomentare il complotto.
La relazione tra sport e democrazie liberali è un tema troppo poco sviluppato nella stampa sportiva; certo si sottolineano gli aspetti economici: bilanci, finanziamenti, indotti commerciali e lavorativi, fino a calcolare l’impatto sul Prodotto Interno Lordo di un paese; invece il legame, che possiamo definire atavico, tra sport moderno e liberismo è spesso scotomizzato dal racconto.
Il merito di Jozsef è quello di portare la discussione proprio in questo campo, forse con una visione troppo ideale del ciclismo e della democrazia liberale, sicuramente eurocentrica.
Concordo che il merito sia alla base della competizione, ma dietro la prestazione di un atleta è presente, da sempre e sempre di più, una ricerca nel migliorarla. La sfida è scientifica, atletica, psicologica, alla caccia del miglior artefatto, costudito gelosamente, al fine di primeggiare: così come in economia, in geopolitica, nella vita di tutti i giorni.
Se un concorrente in un concorso ha assunto un sonnifero per dormire meglio e arrivare più fresco all’esame, ha barato?
Se un prodotto commerciale è portatore di una innovazione in esclusiva, ha infranto le regole del libero commercio? Pas normal?
In guerra non prevale quasi sempre chi è tecnologicamente meglio attrezzato?
A differenza dei conflitti armati, almeno nello sport ci sono le regole, ma all’interno di queste la competizione è totale, dentro e fuori i campi di gara.
Le distorsioni logiche con cui ci approcciamo al doping
Allora perché tutti noi ipocritamente pretendiamo dallo sport una aura di purezza? Forse abbiamo tutti bisogno di un luogo in cui credere, al mito dell’essere pura natura, incorrotti dalla civiltà. Se poi lo condiamo con buoni sentimenti, fratellanza e pace olimpica, lo scopo ideologico del racconto è raggiunto.
Invece, se davvero scaviamo alla ricerca della forza forte che tiene legato il nucleo ontologico dello sport moderno, ci accorgiamo che è molto vicina all’eugenetica, alla ricerca del superamento della natura.
In tutto questo il doping è un alibi utile a nascondere l’ideologia eugenetica delle competizioni, comodo per richiamare all’ordine chi potrebbe mettere in pericolo l’equilibrio del castello di menzogne. Il confine tra doping e no-doping è posto molto più su basi morali che scientifiche.
Una parte del grande successo dello sport risiede proprio in questa illusione: una competizione in cui si annullano gli svantaggi sociali e economici, in cui a ognuno è consentito scalare la piramide del successo.
La realtà ci racconta altro: le vittorie sono quasi sempre correlate ad importanti investimenti economici, privati o pubblici che siano; la competizione scientifica è alla base dei continui miglioramenti prestazionali; il confine tra lecito e illecito è in continuo mutamento così come la percezione nel pubblico dell’utilizzo di sostanze, tecnologie o metodi che incrementano la performance.
Su questo punto Jozsef coglie un importante correlazione tra populismo e sfiducia nelle regole e controlli, un #anoinoncelodicono sostituito con "il doping è sempre più avanti dell’antidoping”.
Ad esempio, la simpamina di Coppi non ha scalfito l’amore del popolo verso il Campionissimo, ne macchia più l’immagine oggi, in un pubblico culturalmente lontano da quello degli anni 50.
Il “mondo in profonda trasformazione” ci ha reso più moralisti del passato, ci nascondiamo dietro un politacally correct, in realtà più nel timore che vengano a fare le pulci a casa nostra, che nel rispetto altrui: una morale senza etica.
Concordo con Jozsef quando riconosce la valenza simbolica dello sport nel favorire il populismo, ma forse è proprio il populismo a cercare inutilmente una purezza nello sport, che per sua natura non può più esserci. Lo sport moderno prosegue nella sua linea evolutiva, alle soglie o già all’alba del doping genetico, è il pubblico con la sua sensibilità a essere progressivamente cambiato e fuorisincrono.
È necessario chiarire che nello sport non tutto è consentito, la WADA esiste proprio per regolare la natura della competizione, ma non è una chiesa alla ricerca della purezza performativa naturale. Si può discutere del rapporto delle istituzioni antidoping rispetto al CIO, così come spesso dibattiamo sul rapporto tra politica e magistratura, ma non si può ignorare quanto le stesse regole siano condizionate dalle “sensazioni” descritte da Jozsef.
È possibile che questo possa portare a breve a nuovi scandali doping, un doping non dovuto all’uso di sostanze proibite old style, ma dallo spostamento “culturale” di quel confine che farebbe rientrare sistemi al momento sotto osservazione, come pratiche illecite. Tutto questo all’interno di un complesso sistema geopolitico in rapido cambiamento, variabile che potrebbe ribaltare molte letture.
Infatti, se posso permettermi, la visione del bravo giornalista francese pecca di eurocentrismo, che nel ciclismo è ancora valido, ma a livello olimpico il discorso potrebbe mutare: altre culture potrebbero rivoluzionare i significati simbolici dello sport moderno, se non ridimensionare la sua valenza sociale.
Dalla cultura del sospetto a quella della consapevolezza
Infine, oggi è davvero pas normal? Quanto possiamo davvero giustificare la sfiducia e il sospetto? Senza lanciarsi in accuse gratuite, prive di alcun fondamento, né all’opposto indossare paraocchi, cosa è ragionevole affermare?
Al momento se ci limitiamo alle sostanze dopanti classiche (EPO, GH, Testosterone, ecc…), si può dire che il passaporto biologico (PB) limita molto le possibilità del loro utilizzo, se non lo esclude del tutto: un eventuale marginal gain illegale, ma pur sempre marginale. La stessa UCI riconosce la possibilità di incremento prestazionale illecito, ma notevolmente ridotta rispetto agli anni neri del ciclismo a cavallo del cambio di secolo, dove un ronzino si trasformava in purosangue.
Questo non significa che ci troviamo in un’epoca doping free, ma più verosimilmente in un momento in cui il confine tra doping e no-doping oggi sia molto vicino alla frontiera dei progressi (leciti) della scienza dello sport.
Questa vicinanza da un lato complica il lavoro della WADA da un punto di vista tecnico, dall’altro lo dovrebbe facilitare: se gli effetti di ciò che è consentito e no sono davvero vicini, la veridicità di una gara è meno compromessa e, finalmente, ci si può concentrare di più e meglio sulla questione salute, anche estendendo l’interesse oltre il confine delle sostanze proibite.
È auspicabile, dunque, uno sconfinamento della WADA nel campo della scienza dello sport, non per proibire (in questo caso saremmo al di qua del confine del doping), ma anche solo per modulare sulla salute dell’atleta una tecnica consentita o nel controllarne il peso, gli infortuni e la salute mentale.
Nuove frontiere della preparazione: la genetica
Riguardo alle vecchie sostanze, potremmo al massimo ipotizzare questo momento storico come quello del “micro-doping”, sempre al netto delle conoscenze a disposizione, però è altrettanto plausibile che la scienza dello sport stia esplorando altri orizzonti, probabilmente leciti, lontani dai vecchi e storici performance enhancing, ad esempio: nella genetica, nel metabolismo energetico e nell’allenamento mentale e neurologico.
Per quanto riguarda la genetica non mi riferisco necessariamente a manipolazioni del codice o somministrazione di farmaci a RNA, sia messaggero (mRNA) o soppressorio (sRNA), il cosiddetto doping genetico, ma nello sviluppo dell’epigenetica nello sport: in grado di far trascrivere ed esprimere geni inespressi presenti nel DNA dell’atleta.
Mentre con i due tipi di RNA è possibile far produrre una proteina mancante (per capirci, lo stesso meccanismo di uno dei vaccini anti-COVID utilizzati), oppure sopprimere la formazione di una proteina normalmente prodotta dalle nostre cellule; con l’epigenetica si stimola la naturale espressione di geni che altrimenti rimarrebbero silenti o meno espressi, ad esempio nel muscolo scheletrico.
È un settore in grande evoluzione in medicina, le cui prospettive potrebbero espandersi esponenzialmente con l’Intelligenza Artificiale. Quando una tecnica epigenetica possa o no essere considerata dopante, ad esempio se provocata con l’utilizzo di un farmaco, è tutto da discutere, un lavoro che si presenta complicato per la commissione tecnica della WADA.
Il contesto energetico e metabolico è probabilmente quello più in voga oggi nello sport e nel ciclismo in particolare, basti osservare i maniacali programmi nutrizionali in gara e fuori, oppure lo sviluppo di integratori energetici come i chetoni. Indicativo di quanto sia un settore particolarmente attenzionato, è la presenza nella lista della WADA di molecole proibite che lavorano proprio in questo ambito, mi riferisco alle sostanze presenti al punto S4.4.1 del capitolo del modulatori metabolici: Attivatori della AMP-activated protein kinase (AICAR), peroxisome proliferator-activated receptor delta (PPARδ) agonista (GW1516, GW501516) e Rev-erbɑ agonista (SR9009, SR9011). Al momento le dosi importanti di carboidrati/ora e i chetoni rientrano nel lecito, con buona pace di chi li giudica dopanti.
Infine, lo sviluppo sempre maggiore di ricerche in ambito neurologico sportivo di tecniche di stimolazione cerebrale: il cosiddetto “neurodoping”. Termine fuorviante, perché nessuna tecnica neurologica è proibita al momento (ad esempio la stimolazione magnetica transcranica), in quanto i loro effetti nel tempo e collaterali non sono ancora certi. Anzi, non solo nello sport, è forte l’interesse scientifico nel conoscere meglio il ruolo del nostro cervello nel migliorare la nostra prestazione fisica e capire come incidere dall’esterno su esso.
Tornando a “I soliti sospetti” di Jozsef, il mondo in profonda trasformazione inevitabilmente ci destabilizza, ci complica la lettura, ci costringe a riparametrare la natura di un fenomeno culturale; ma per non cadere nelle teorie del complotto, c’è bisogno di conoscenza, di riconoscere il peccato originale dello sport, l’eugenetica, al fine non di dubitare davanti a qualsiasi prova sportiva, ma nel regolare sulla salute dell’atleta la ricerca della migliore prestazione possibile.
Due sono i nemici che al momento impediscono di mettere la salute al centro: l’ossessione eugenetica di dominare la natura e superarla e, non meno importante, liberarsi dall’ideologia liberista che, come spiega correttamente Jozsef, è intrinsecamente legata allo sport.
Viviamo nell’epoca in cui il mito del superuomo efficiente e produttivo dello sportivo è un simbolo e matrice (cavia?) dell’uomo moderno capitalista, se questo lo riuscissimo a sostituire con un modello sano, non solo le democrazie non sarebbero in pericolo, ma ne sarebbero rafforzate, perché il benessere è sì un bene individuale, ma anche collettivo; e anziché dubitare davanti a ogni vincitore di un Tour, saremmo arricchiti di piacere nella vista di una prestazione atletica e, senza timore, dei progressi scientifici e tecnici che vi sono dietro, utili a migliorare tutti noi perché sani.