Stagione spalmata su due anni? No, meglio correre fino a dicembre
Alternare gli appuntamenti minori su base biennale, come proposto dalla Tribuna del Sarto, non solo lascerebbe irrisolti i problemi di partecipazione alle corse, ma ne metterebbe a rischio la stessa sopravvivenza
Dopo Sinner, il calendario: giuro, io e Kristian Perrone non concordiamo preventivamente le nostre rubriche ma, tant’è, evidentemente in tempo di off-season gli spunti si riducono e, di conseguenza, aumentano le possibilità di andarsi a confrontare sugli stessi temi. Ebbene, nella sua ultima Tribuna del Sarto, Kristian propone di spalmare su due anni le corse di secondo e terzo piano (al netto, quindi, dei tre grandi giri e delle classiche più importanti, che continuerebbero a svolgersi ogni dodici mesi), al fine di alleggerire il calendario e limitare le sovrapposizioni. La speranza sarebbe quella, così facendo, di innalzare la qualità media delle startlist e di dare maggior spazio, nell’era dei grandi fenomeni polivalenti alla Van der Poel o alla Van Aert, a tutte le discipline altre rispetto alla strada: pista, cross, gravel e mountain bike.
Una proposta senza dubbio interessante che, però, a mio giudizio si scontra con due ostacoli insormontabili, entrambi riferiti alla sostenibilità del sistema: da un lato, la necessità degli organizzatori di esserci ogni anno, anche a costo di fare le nozze con i fichi secchi, perché bucare un’edizione si è già rivelato un colpo mortale per molte corse in passato. Dall’altra parte, un drastico snellimento del calendario comporterebbe, inevitabilmente, una scrematura degli organici delle squadre, tanto in termini di corridori che di staff: il che, se ragioniamo in un’ottica di contenimento dei costi, potrebbe anche essere un bene, ma, come è ovvio, rappresenterebbe un bel problema per i tanti che rimarrebbero senza lavoro.
Inoltre, per quanto il calendario odierno sia oggettivamente ingolfato, non necessariamente questo va sempre a scapito delle corse considerate minori. Pensiamo alla miriade di semiclassiche belghe nate come competizioni giovanili o per amatori che, proprio in questi ultimissimi anni, sono assurte al rango di eventi professionistici veri e propri, per lo più con classificazione 1.1 ma capaci di attrarre un parco partenti che, altrove nel mondo, faticano a mettere insieme anche gare appartenenti al circuito Pro Series o addirittura al World Tour. Questo significa che, laddove chi organizza può contare su una solida base di squadre e di spettatori, la contemporaneità con altri appuntamenti non rappresenta affatto un problema. Viceversa, se nel tuo paese le squadre sono poche e di secondo piano, e pure il pubblico è sempre più residuale, l’UCI potrà anche riservare una data tutta per te, ma da solo faticherai ad attrarre una startlist degna di nota, né sarà di particolare aiuto presentarsi in calendario ad anni alterni. E purtroppo, questo è anche il caso dell’Italia.
Da qui, semmai, l’esigenza colta già da molte corse nostrane – ma non ancora da tutte: vero, cari amici dell’Appennino? – di battezzare sostanzialmente due momenti specifici dell’anno: la prima parte di primavera, attorno alla sequenza World Tour composta da Strade Bianche, Tirreno-Adriatico e Milano-Sanremo; oppure l’autunno, grazie alla forza attrattiva con cui il Giro di Lombardia ha saputo rivitalizzare, trasformandole in imprescindibili tappe di avvicinamento all’ultima grande classica della stagione, tante corse che, se fossero invece rimaste nella loro tradizionale collocazione estiva, sarebbero presto andate incontro all’estinzione. Nella stessa situazione, naturalmente, si trovano anche gli organizzatori spagnoli, tedeschi o di qualsiasi altra nazione diversa dalla Francia o dal binomio Belgio-Olanda, vale a dire gli unici paesi capaci di sostenere un’intera stagione di corse con la sola forza del proprio movimento.
Però ha ragione, il Sarto, quando si pone il problema di come andare incontro a quanti vogliano cimentarsi su più terreni, anziché costringerli a sacrificare, sull’altare della strada, le velleità su pista o fuoristrada. Oppure, più semplicemente, a quanti – come Pogačar – non si rassegnano all’iperspecializzazione e cercano di primeggiare tanto nelle grandi corse di un giorno come in quelle a tappe. E allora la sola strada realisticamente percorribile – e alla quale accenna lo stesso Kristian – pare dunque quella di dilatare la durata della stagione ciclistica, confidando sul fenomeno, sempre più difficilmente negabile, del riscaldamento globale: perché nel momento in cui uscire in bicicletta ad ottobre o novembre, se non addirittura ai primi di dicembre, è diventato assolutamente fattibile, chi ci impedisce di sfruttare appieno anche tutto l’autunno?
Magari spostando di un paio di settimane in avanti l’intero calendario: sia perché marzo, al contrario, somiglia sempre di più ad un mese invernale in tutto e per tutto, sia perché, in questo modo, si darebbero quindici ulteriori giorni di stacco ai reduci dalla stagione del cross; e lo stesso Giro d’Italia ne guadagnerebbe enormemente, dal terminare a metà giugno anziché a fine maggio, per non parlare del fegato di Mauro Vegni, costretto ogni anno a tagliare questa e quell’altra salita per il maltempo; al Tour de France basterebbe iniziare entro il 14 luglio, festa nazionale francese attorno alla quale gravitano le ferie della maggior parte dei nostri cugini d’Oltralpe, e la Vuelta potrebbe trovare una collocazione perfetta a cavallo tra ottobre e novembre, sfuggendo alla sovrapposizione con le classiche canadesi e, soprattutto, alle temperature sahariane che rendono pressoché impossibile pedalare in Andalucía o nella Mancha ad agosto o ai primi di settembre quando, invece, in assenza di altri grandi appuntamenti su strada potrebbero trovare collocazione stabile, e adeguata visibilità, i mondiali su pista.
Personalmente mi limiterei a questo, senza invece rimescolare più di tanto la collocazione in calendario delle corse principali: avvicinare le classiche delle Ardenne al Lombardia, come ventilato dallo stesso presidente UCI Lappartient, non mi entusiasma, perché mettere assieme tutte le corse più importanti di una ben precisa tipologia significherebbe incentivare nuovamente l’iperspecializzazione, anziché la differenziazione degli obiettivi. Né, per lo stesso motivo, impazzisco all’idea di tenere per ultime Fiandre, Roubaix e semiclassiche annesse: significherebbe, per forza, concentrare a marzo e aprile tutte le classiche vallonate, per trovare, in ottobre, lo spazio sufficiente ad ospitare tutto quel che va dalla Omloop alla stessa Roubaix.
Invece correre praticamente tutto l’anno facendo salva l’attuale successione delle gare, pur non essendo comunque la soluzione a tutti i problemi – per dirne una, la doppietta Giro-Tour continuerebbe ad essere difficilmente praticabile, ma nessuno si sognerebbe di imporre l’alternanza biennale tra le due corse che, sola, garantirebbe ad entrambe (o per meglio dire al Giro, dato che il Tour non ha di questi problemi) una partecipazione stellare – servirebbe almeno a rendere più semplice, per chi lo volesse, giocare le proprie carte su più tavoli, salvaguardando al tempo stesso un’offerta di corse tale da soddisfare il fabbisogno delle squadre e dei corridori oggi attivi nel professionismo. Mentre per il rilancio dei singoli movimenti in crisi – quello italiano in primis – occorrono interventi strutturali e di lungo periodo, non certo una shakerata al calendario: magari bastasse quella!