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Daniel Teklehaymanot, il pioniere

07.05.2017 05:45

L'eritreo veste la maglia azzurra del Giro d'Italia, ennesimo step di una carriera fatta di prime assolute


La Sardegna sa essere di una bellezza selvaggia. Lasciate alle spalle Gallura, Costa Smeralda, Caprera e La Maddalena, su cui si concentra sovente il turismo di massa, ci si è addentrati in quella terra più brulla, aspra, con le propaggini del Gennargentu ad accogliere l'approdo nel nuorese e nell'Ogliastra. Terre dove il tempo sembra essersi fermato, dove il tranquillo pascolare delle greggi e le sfrenate corse di cavalli allo stato brado scandiscono giornate vestite di silenzio e calma apparente.

Non posti da fighetti, tanto per intenderci ma luoghi in cui entrare in punta di piedi, con l'umiltà di chi sa dare giusta riconoscenza e dignità alla fatica ed in cui perdersi dentro, disconnettendo momentaneamente il pensiero dalla realtà, lì dove pietre e speroni contornano strade dolcemente infide. Non posti da gente qualunque neppure se si è in sella ad una bicicletta, perché per decidere di sobbarcarsi oltre duecento chilometri di fatica da quelle parti bisogna essere in piena efficienza e avere fegato a sufficienza. Posti così che vagamente sembrano rimandare agli altopiani africani di Etiopia ed Eritrea, che pure tante storie hanno avuto da raccontare nei decenni e non tutte così felici.

Non stupisce che in un contesto come quello della tappa che ha condotto il gruppo da Olbia a Tortolì ci si sia buttato convintamente dentro Daniel Teklehaymanot, evidentemente non abbastanza sazio dei quasi 200 chilometri di fatica consumati nella prima frazione di questo Giro numero 100. Aspetto esile e bonario il suo ma capace di centuplicare le energie una volta trovatosi in mezzo alla mischia. Venerdì i suoi compagni d'avventura si chiamavano Benedetti, Zhupa, Brutt e Bialoblocki, questa volta, cambiando i nominativi ma non il colore delle casacche, Andreetta, Owsian, Shalunov e Koshevoy.

 

Teklehaymanot, pioniere di un continente
Un bel tipo il "Tekle": ce lo ricordiamo un po' impacciato da Under 23 quando faceva le prime importanti esperienze in Europa (mettendosi in buona evidenza al Tour de l'Avenir) con la selezione del Centre Mondial du Cyclisme di Aigle, che permette ad atleti di paesi ciclisticamente in via di sviluppo di poter aspirare a giungere al top del ciclismo mondiale. Allora stazionava spesso a fondo gruppo, quasi timoroso di stare lì nel mezzo per evitare magari di trovarsi in imbarazzo e non farsi così troppe amicizie in gruppo.

Sarà forse per questo che Daniel ha sempre amato la libertà, il prendere il vento in faccia, evadendo dal gruppo per chilometri e chilometri e sognando magari di scollinare in beata solitudine su qualche salita mitica fra quelle prima ammirate soltanto alla tv. In un certo senso è un precursore, il "Tekle": primo eritreo a disputare (e concludere) una grande corsa a tappe (la Vuelta 2012), primo eritreo a partecipare e portare a termine il Tour de France (nel 2015).

Ma per uno che, tutto sommato, ha sempre amato le salite una piccola soddisfazione era naturale che arrivasse anche solo da un semplice dentello prima che dalle salite alpine ed ecco che sempre a lui è toccato l'onere e l'onore di diventare il primo atleta nero a vincere la classifica degli scalatori al Critérium du Dauphiné (per due anni consecutivi, peraltro), che seppe fungere da trampolino per il primo vero momento di grande notorietà: la conquista della maglia a pois, tenuta per qualche giorno, al Tour de France 2015. Il tutto dopo essersi tolto anche la soddisfazione di ottenere il primo successo da professionista a Villafranca de Ordizia, nei Paesi Baschi, quando ancora vestiva la maglia dell'Orica-GreenEDGE nel 2013.

 

Al Giro la perla che mancava a Daniel
In effetti mancava il Giro d'Italia a questa personale collezione di piccole grandi soddisfazioni incipriate di polvere dei sogni, ed è per questo che 220 chilometri in salsa sarda potevano rappresentare il giusto amalgama per scrivere una nuova pagina di un avvincente romanzo d'avventura. Per un po' ci ha anche creduto alla possibilità di essere il primo atleta dell'Africa nera a vestirsi di rosa, impegnandosi allo spasimo negli sprint intermedi di Buddusò e Dorgali; più verosimilmente era la maglia azzurra degli scalatori l'obiettivo maggiormente praticabile, da centrare sfidando comunque un'agguerrita concorrenza pronta a contrastarlo a suon di scatti e stilettate, mentre il buon Benedetti, dopo la gloria del venerdì, era tornato alle umili e splendide mansioni di gregario.

Andreetta l'ha preceduto in quel di Nuoro, nessuno invece ha messo la ruota davanti alla sua nella spettacolare cornice di Genna Silana, quando il fiato del gruppo era ormai sul collo e un ultimo sforzo poteva fruttare l'ultima soddisfazione cercata e richiesta in questa giornata. Uno scatto secco, a piantare gli esausti Shalunov e Koshevoy, il pollice della mano sinistra ad indicare la missione compiuta ed eccolo starsene lì dove il caos del gruppo pian piano si allontana: nelle retrovie, stanco ma soddisfatto del proprio operato, accompagnato verso il traguardo da velocisti ambiziosi e ragazzi che vivono il personale calvario di una giornata che sembrava infinita.

Lo ritroviamo sul podio, Daniel Teklehaymanot. A prendersi meritatamente la sua maglia azzurra che lo incorona al momento migliore scalatore del Giro d'Italia. Il primo anche stavolta, esponente di una terra che nelle ultime stagioni ha saputo esaltarsi anche grazie alla verve dei Berhane (presente anch'esso in questo centesimo Giro) e dei Kudus. A noi però quell'immagine di Daniel sul podio, all'interno della splendida festa popolare che è il Giro d'Italia, piace da morire. Perché ci ricorda che al giorno d'oggi il tanto bistrattato ciclismo permette ancora d'inseguire le proprie speranze e consente ad un ragazzo nero di poter indossare uno dei simboli del primato della gara ciclistica più amata dagli italiani.

Ci piace perché di un'immagine così avevamo bisogno, dopo le fastidiose scorie lasciate dalla brutta vicenda che ha coinvolto pochi giorni orsono Gianni Moscon e Kévin Réza. Ci piace perché, al netto dell'ignoranza dei tempi, riverberatasi purtroppo anche sulle pagine di questo sito attraverso reazioni scomposte sui social network, la passione e il buon senso sono ancora capaci di dire l'ultima parola. Perché passione e buon senso, si sa, non hanno né bandiera né tantomeno colore.
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