UCI kills the radio stars: un ban insensato e fuori dal tempo
In nome della sicurezza e dello spettacolo, l’Unione Ciclistica Internazionale vorrebbe eliminare le radioline anche dalle corse World Tour: eppure sono un semplice strumento che può anche dare vita a tattiche splendide
Dunque, ci siamo: con le corse di agosto è iniziata la sperimentazione delle novità regolamentari introdotte dall’UCI che, se confermate, entreranno in vigore il prossimo anno con l’obiettivo di migliorare la sicurezza dei corridori: tra queste, un sistema basato sui cartellini gialli per modulare le sanzioni a seconda della gravità e della frequenza delle infrazioni commesse; la facoltà, da parte dell’organizzatore, di aumentare da 3 a 5 km la distanza dal traguardo entro cui scatta la neutralizzazione dei tempi in caso di caduta; ed un ricalcolo dei distacchi tale per cui il gap venga effettivamente conteggiato solo dai tre secondi in su, nella speranza che queste misure rendano meno concitati i finali di tappa.
Ma anche un giro di vite sulle radioline, già bannate da Olimpiadi, Mondiali ed Europei, ed il cui utilizzo verrebbe drasticamente ridimensionato anche nelle corse World Tour, limitandolo a non più di uno o due corridori per squadra.
Già alla recente Vuelta a Burgos, ad esempio, abbiamo visto contraddistinto da una fascia al braccio il solo corridore autorizzato, per ciascun team, ad intrattenere un collegamento diretto con la propria ammiraglia. Al Giro di Polonia di questa settimana invece si sono sperimentate diverse varianti: in un paio di tappe sono stati autorizzati a disporre di auricolari due corridori per ogni team, mentre la quinta frazione, quella di Katowice, è stata totalmente radio-free. E ci chiediamo: davvero vietare le radioline va nel senso di una maggiore sicurezza per i corridori? O nella direzione di uno spettacolo maggiore?
Quanto incide in termini di sicurezza il ban alle radioline?
Per quanto riguarda il primo punto, la sicurezza, la tesi è quella che le continue indicazioni urlate in cuffia dai direttori sportivi, spronando i corridori a combattere per le posizioni di testa anche quando non strettamente necessario, sarebbero causa di molte delle cadute di gruppo a cui assistiamo sempre più frequentemente. E però – scoop! – dalla bicicletta si è sempre caduti, spesso anche da soli e perfino in situazioni di apparente calma.
Quindi non sarà vietando le comunicazioni dirette tra ammiraglia e corridori che si risolve da un giorno all’altro un problema così serio (anzi, chiedetelo a Nicholas Debaumarché, in gara proprio al Polonia, finito in un fosso dopo una caduta e ritrovato proprio grazie all'ausilio della radio!), e ancora troppe volte drammatico, per il quale l’unica soluzione concreta è quella di mettere le protezioni direttamente addosso ai corridori, superando una resistenza che è figlia di pregiudizi e abitudini consolidate come, d’altra parte, lo fu l’anacronistica resistenza all’introduzione del casco obbligatorio, una ventina d’anni fa.
E ad ogni modo, anche un airbag incorporato al body dei ciclisti o qualunque altro doveroso accorgimento che vada in questa direzione non elimineranno mai, del tutto, il rischio di incorrere in incidenti anche mortali, per cui figuriamoci a cosa mai potrà servire il ban alle radioline! Associare queste ultime alla questione sicurezza, quindi, ci sembra piuttosto un cavallo di Troia per giustificare la vera motivazione, da ricercare nell’inveterata associazione tra radioline e tatticismo.
Con le radioline abbiamo avuto grandi spettacoli di ciclismo!
Ora, a parte che se c’è un elemento che rende unico il ciclismo, sono proprio i giochi tattici incrociati che possono far prendere a ciascuna corsa pieghe anche diametralmente opposte, con tutti i dibattiti che le diverse scelte compiute, o mancate, scatenano poi anche tra i tifosi. E che comunque, grazie alla straordinaria qualità e inventiva degli interpreti del ciclismo contemporaneo – da Tadej Pogačar a Mathieu van der Poel passando per Remco Evenepoel, Jonas Vingegaard, Mads Pedersen e Wout van Aert, tutta gente che non si fa certo pregare quando c’è da attaccare, anche dalla grande distanza – in questi ultimi anni non ci pare di avere assistito a molte corse noiose, pur in presenza di radioline.
A parte tutto questo, dicevamo, ma dove sta scritto che le radio, di per sé, sarebbero responsabili di uccidere lo spettacolo? Perché attribuire a quello che è un semplice strumento la responsabilità del cattivo (?) uso che talvolta può esserne stato fatto da qualche direttore sportivo? Sorvolando, poi, sul fatto che ciascuna squadra persegue legittimamente la tattica di gara che reputa più funzionale al conseguimento dei propri obiettivi, e non certo al sollazzo dello spettatore!
Ma mettiamo anche che lo spettacolo, se non a chi sta in ammiraglia, debba stare a cuore a chi da Aigle gestisce il carrozzone, perché in fondo si tratta pur sempre di un prodotto che l'UCI deve piazzare nel mercato dell’intrattenimento sportivo. Questo è sacrosanto ma, ribadiamo, le radioline sono un falso problema. Dipende se mai dall’uso che se ne fa.
O qualcuno avrebbe qualcosa da obiettare sulla spettacolarità di certe tattiche inscenate, ad esempio, da Beppe Martinelli? Giusto per citarne un paio: Damiano Cunego che, atteso da Tonti e Mazzoleni in cima al Furcia, mette le mani sul Giro 2004; Michele Scarponi fatto fermare per attendere Vincenzo Nibali in fondo alla discesa dell’Agnello e dare scacco a Kruijswijk e Chaves alla corsa rosa del 2016.
Il ruolo dei direttori sportivi e le possibili frodi di domani
Avremmo mai potuto assistere a simili spettacoli in assenza di radioline? E perché limitare gli strumenti a disposizione dei direttori sportivi il cui ruolo, al contrario, deve essere esaltato? Sarebbe come voler mettere gli allenatori di calcio in un bunker, e lasciare che i giocatori si gestiscano in autonomia durante la partita. Anzi, anche peggio, perché in fondo chi gioca a calcio ha contezza dei movimenti di tutti gli altri ventuno tra compagni e avversari, mentre chi pedala su strada riesce a malapena a districarsi tra quel che combinano gli altri corridori del proprio gruppo, e senza l’ausilio degli auricolari non ha nessuna possibilità di sapere in tempo reale cosa stia accadendo negli altri drappelli: chi c’è davanti? E chi sta tirando? Come sono organizzati invece nel gruppo dietro? E così via.
Davvero preferiamo corse ignoranti come fu – per fare un esempio su tutti – la prova in linea femminile alle Olimpiadi di Tokyo, nella quale il gruppo delle migliori non si preoccupò di andare a riprendere la carneade Anna Kiesenhofer per il semplice fatto di non sapere che fosse ancora sola al comando? Io non ci vedo affatto “una bella favola a cinque cerchi”, bensì una totale mancanza di rispetto verso le altre decine di corritrici che avevano investito anni di allenamenti nell’appuntamento olimpico e che, per una limitazione tecnologica autoimposta in nome dello “spettacolo”, non sono state messe nella condizione di competere al loro meglio per l’obiettivo più importante della carriera. E credo che Annemiek van Vleuten, protagonista di un’incolpevole gaffe in mondovisione avendo tagliato il traguardo seconda a braccia alzate, sia d’accordo con me.
Infine, un’ultima riflessione più ampia: abbiamo davvero bisogno dell’ennesimo divieto, nel momento in cui poi non ci sono gli strumenti per assicurarne il rispetto da parte di tutti? In altre parole possiamo davvero escludere che, con le tecnologie di oggi, qualche squadra non aggiri un eventuale ban alle radioline installando dei microchip sottocutanei ai propri corridori che permettano loro di continuare a comunicare con le ammiraglie, traendone un enorme vantaggio indebito sui rivali? O, più banalmente, che una squadra si organizzi meglio di altri dislocando personale sul percorso, e fornire informazioni in codice, altrimenti, vietate, ai propri atleti? Non ci sono bastati anni e anni di caccia alle streghe nella lotta al doping, per capire che, se vogliamo offrire uno spettacolo credibile, la strada da percorre è tutt’altra e va nella direzione opposta a quella dei divieti e delle limitazioni?