Liegi-Bastogne-Liegi, storie di fatica, sacrifici e imprese
La Doyenne ha regalato in passato numeri d'alta scuola. Da Merckx a Hinault, da Bartoli a Vandenbroucke, dieci edizioni che val la pena di ricordare
Tra le classiche oggi conosciute come "monumento" la Liegi-Bastogne-Liegi è la più antica: nata nel 1892, come Spa-Bastogne-Liegi, venne sospesa nel 1895, dopo tre edizioni, e tornò, solamente, nel 1908, con la denominazione attuale e partenza e arrivo a Liegi. La Doyenne, in italiano "decana", così chiamata per via, appunto, della sua antichità, si snoda lungo le strade della Vallonia, dove le foreste tipiche della regione delle Ardenne si alternano a zone industriali e fabbriche, in luoghi che hanno ben poco da spartire con quelli attraversati dalle altre grandi classiche. D'altronde la Vallonia durante la rivoluzione industriale è stata seconda solo al Regno Unito in quanto a sviluppo, le miniere di ferro e carbone hanno fatto la fortuna di quelle terre, tanto da spingere centinaia di migliaia di italiani a emigrare in quelle zone tra la fine del XIX° secolo e la prima metà del XX°. Solo la Tragedia di Marcinelle nel 1956, che vide centinaia di italiani morire in una miniera di carbone, bloccò il flusso migratorio proveniente dal bel paese.
Ancora oggi, tuttavia, numerosi nostri connazionali vivono in Vallonia, in particolare a Liegi, tanto che la Liegi-Bastogne-Liegi è conosciuta anche come classica degli italiani proprio per questo motivo. Siamo di fronte a una gara, dunque, che al contrario di altre non attraversa luoghi fiabeschi, ma zone che hanno visto dinnanzi a sé orde di persone disposte a mettere a rischio la propria vita nelle miniere per dare un futuro ai proprio figli. La Liegi incarna appieno lo spirito della Vallonia, è la classica del sudore e della fatica, del maltempo e delle tormente, degli oltre 4000 metri di dislivello, delle côte arcigne pronte a sgretolare le gambe dei corridori più in difficoltà. Ma come un ranocchio può diventare principe con il bacio di una bellissima principessa, anche la Liegi-Bastogne-Liegi, classica grigia per eccellenza, può brillare di abbagliante luce propria quando trova dei campioni in grado di accenderla. Di seguito ripercorreremo dieci edizioni della Doyenne che sono rimaste impresse nelle storia.
1966, il re normanno seduce Liegi
Jacquest Anquetil è stato uno dei personaggi più affascinanti che il mondo del ciclismo abbia mai visto, particolare come pochi altri campioni venuti prima e dopo di lui. Anquetil, normanno di Mont-Saint-Aignan, era un estroso viveur, famoso tanto per quello che ha fatto in corsa, quanto per quello che ha combinato fuori. La sua vita sentimentale, divenuta di dominio pubblico nel 2004 dopo la pubblicazione del libro “Pour l’amour de Jacques” scritto da sua figlia Sophie, è passata alla storia per l'unicità che la contraddistinse. Jacques amava il vino, la bella vita e le donne, una in particolare però: Janine, la moglie del medico che lo seguiva nei suoi primi anni da corridore. Si conobbero quando lui aveva 18 anni e lei 24, sei anni dopo si sposarono. Janine, che aveva avuto due figli dalla relazione precedente, Alain e Annie (che andarono a vivere con la madre e con Anquetil), aveva fatto un'operazione per non averne più. Quando anni più tardi Jacques decise che voleva un erede, Janine, non potendo dargliene uno, lo convinse ad averlo con Annie, sua figlia all'ora diciottenne. Ma Annie si innamorò a sua volta di Jacques e presto scoppiarono le gelosie tra madre e figlia. Anquetil, mentre la situazione nella sua dimora, l'incantevole Villa degli Elfi, si faceva sempre più incandescente, sedusse anche la moglie di Alain, il figlio di Janine, Dominque, provocando, nell'immediato, la fuga da casa sua di Janine, Alain, Annie e Sophie, la figlia nata della relazione con Annie.
In gara, tuttavia, Anquetil il più delle volte si trasformava in cinico calcolatore. Nei grandi giri il suo modo di correre funzionava a meraviglia, si difendeva in salita e poi trafiggeva tutti a cronometro, disciplina dove non aveva eguali nella sua epoca. Al contrario nelle corse di un giorno la sua strategia non pagava e, nonostante le incredibili doti, vinse molto meno di quanto avrebbe potuto in questa tipologia di gare. Di tanto in tanto, però, l'estro di Anquetil sbucava all'improvviso quando era in sella alla bicicletta e, in quei casi, i fortunati spettatori avevano modo di assistere a dei numeri a dir poco epici. E' il caso della Liegi-Bastogne-Liegi del 1966, quando, a 45 chilometri dal traguardo, Anquetil esce prepotentemente dal gruppo dei favoriti, con una violenta stoccata che non lascia scampo a nessuno dei suoi rivali. Il normanno si invola tra le stradine delle Ardenne come un falco, sparendo rapidamente dalla visuale di tutti gli altri corridori. Al traguardo Anquetil vinse distanziando il secondo classificato, Victor Van Schil, di quasi 5 minuti. Poi, per non farsi mancare nulla, si rifiuta di farsi controllare dall'antidoping. Riteneva che i test fossero immorali e che invadessero la privacy dei corridori.
1967, il Bulldog azzanna il Cannibale
Eddy Merckx lo conoscono tutti, il Cannibale, il più grande e vorace campione che il ciclismo abbia mai visto. Di Walter Godefroot, il Bulldog delle Fiandre, se ne parla decisamente meno, invece. Godefroot, tenace e spietato classicomane di Gand, era per Merckx un vero incubo, uno di quei corridori che anche il Cannibale dovette imparare a non sottovalutare in nessuna occasione, perché capace di infilzarti quando meno te lo aspetti. Merckx, nello specifico, apprese la severa lezione proprio alla Liegi-Bastogne-Liegi, il 30 aprile 1967. Quel giorno, dopo appena 21 chilometri dal via di Liegi, mentre gocce di pioggia gelida cadono sulle schiene dei corridori come pugnali, Merckx attacca e porta via una fuga di 16 uomini. Con lui ci sono, tra gli altri, Zilioli, Bracke, Altig, Guyot e Godefroot, che lo segue come un'ombra. Il freddo tagliente e il temporale incessante trasformano la corsa in un vero e proprio inferno, arriveranno solo in 22 dei 124 partiti.
Merckx è baldanzoso e prende di petto la gara, la doma. Godefroot, sibilino, lo scruta, lo studia, stringe i denti e cerca di non farselo sfuggire. Sull'ultima cote di giornata, la Thier-à-Liège, il Cannibale porta il più violento dei suoi attacchi, tutti sono costretti ad alzare bandiera bianca, tranne Godefroot, che, contorcendosi sulla bicicletta, azzanna la ruota di Merckx, da Bulldog qual è, e non la molla fino allo scollinamento. Godefroot, da astuto predatore, rifiuta di dare il cambio a Merckx, poi, nel tunnel che porta al velodromo di Rocourt, dove si trova il traguardo della Doyenne, lancia lo sprint. Il bulldog sbuca in testa sulla pista bagnata, Merckx, colto di sorpresa, non ha tempo per reagire, è battuto. Godefroot sente particolarmente la rivalità con Merckx, parlerà di giorno più bello della sua vita durante i festeggiamenti, ma Merckx non è uno sprovveduto e fa tesoro delle sconfitte. Negli anni seguenti Godefroot non rivincerà più la Doyenne, il Cannibale la farà sua per cinque volte.
1969, La prima Doyenne di Merckx, nel segno della Faema
«Era il più grande, non c'è dubbio, ma quello che molti non sanno è che Merckx aveva anche la squadra più forte. Spezzavano il gruppo per lui formando ventagli con i venti laterali, proprio come faceva la squadra di Van Looy. Aveva forti scalatori che imponevano un ritmo alto sulle montagne per bloccare l'attacco di altri scalatori. Aveva corridori che potevano inserirsi nelle fughe con lui e lavorare per aumentare il distacco. Poi, se facevi un tentativo e lui era al comando, aveva comunque corridori abbastanza forti nel gruppo che inseguiva per bloccare il tuo tentativo di riacciuffarlo». Così parlò Barry Hoban, grande corridore britannico attivo a cavallo tra gli anni '60 e '70, a riguardo della Faema e della Molteni, i fortissimi sodalizi italiani per cui corse Eddy Merckx nei suoi anni d'oro. Alla Liegi del 1969, in particolare, ci fu un saggio della forza della Faema. Merckx era a digiuno di vittorie da ben tre settimane, tantissimo per uno come lui, e spesso nelle fasi calde delle corse si trovava costretto a correre da solo contro tutti.
A mandarlo su tutte le furie, in particolare, erano i fratelli De Vlaeminck, quei bravi spietati cresciuti tra il fango del ciclocross, che non si facevano scrupoli a stringerlo nella loro morsa pur di metterlo nel sacco. Il Cannibale, per non cadere nuovamente vittima dei tranelli dei suoi nemici, decise di approcciarsi alla Doyenne del '69 in modo diverso rispetto al solito, sfruttando la forza della sua squadra per fare piazza pulita di chiunque osasse mettergli il bastone tra le ruote. Prima manda in fuga i gregari Victor Van Schil e Roger Swerts, poi, a 98 chilometri dall'arrivo, attacca sorprendendo tutti sulla seconda delle 12 côte in programma quel dì. Solo De Vlaeminck e Gimondi provano a rispondergli, ma, prima che possano raggiungerlo, il Cannibale li trafigge con un'altra stoccata sul Mur de Stockeau. Ai piedi della Côte de Haute-Levée De Vlaeminck si porta a pochi metri dal rivale, ma il Gitano è da solo, Merckx no e gli sfugge via in compagnia del fidato Van Schil. La battaglia finisce in quel momento, dietro nessuno riuscirà ad organizzare un inseguimento credibile, Merckx e Van Schil arrivano a Liegi con oltre otto minuti di vantaggio sul terzo, ironia del destino proprio Barry Hoban. Il Cannibale si prende la sua prima Liegi, Van Schil un onorevole secondo posto.
1972, la più bella cavalcata di Eddy Merckx tra le strade della Vallonia
Merckx è fiammingo, è cresciuto sognando il Giro delle Fiandre, durante la sua carriera, tuttavia, ha conosciuto la Liegi e con la Doyenne ha costruito un feeling che non ha avuto con nessun altra classica belga. L'ironia del destino, però, vuole che la sua cavalcata più memorabile la fece nel 1972, anno dove, in via del tutto eccezionale, l'arrivo della classica degli italiani fu spostato a Verviers, la città conosciuta come la capitale vallona dell'acqua, caratterizzata dalla presenza di mille fontane, nonché culla dell'industrializzazione della regione. In quell'edizione Merckx fece, come al solito, fuoco e fiamme sul Mur de Stockeau, sbarazzandosi di tutti i rivali. Dopodiché si sciroppò ben 64 chilometri di fuga solitaria, prima di arrivare tutto solo a braccia alzate a Verviers. Wim Schepers, secondo classificato, chiuse a 2 minuti e 40, mentre il terzo, Herman Van Springel, a 4 minuti e mezzo.
1977, il passaggio di testimone
Nel 1977 Merckx è ormai a fine carriera, i dolori alla schiena lo tormentano dai tempi della caduta nel Velodromo di Blois, il suo fisico è consumato, logoro. Sa che non gli sono rimasti molti gettoni da spendere, per la prima volta dal 1966 è a digiuno nelle classiche, non gli resta che provare a riprendersi la sua Liegi. Sulla sua strada, però, questa volta compare un ventiduenne bretone, un ragazzo giovanissimo che negli anni d'oro del Cannibale sognava di diventare proprio come Eddy, mentre la madre, alla quale confidava la sua brama di divenire un campione, lo riprendeva e rideva di cotanta ambizione. Il giovane si chiama Bernard Hinault, soprannominato Le Blaireau, il tasso, in bicicletta è un autentico prodigio, arriva dalla pista, è passato professionista a soli 20 anni e nel palmares ha già una Gand-Wevelgem. Hinault è fiero e battagliero, forte in salita e rapido in volata. La pioggia scende scrosciante alla Doyenne del 1977, non lascia un attimo di tregua ai corridori ed è propedeutica ad una corsa ad eliminazione. A 10 chilometri dalla fine sono rimasti in sei a giocarsi la Liegi: ci sono Maertens e De Vlaeminck, quest'ultimo reduce dalla doppietta Fiandre e Roubaix, Dierickx e Thurau, ma, soprattutto, ci sono loro, il vecchio re e l'aspirante al trono: Merckx e Hinault. Sulla Côte de Forges scatta Dierickx, sorprende tutti, tutti tranne uno, tutti tranne Hinault. Il Tasso, famelico come da far suo, lo pedina, lo raggiunge, si assicura che da dietro non possano più riprenderli e poi al traguardo lo infilza con uno sprint folgorante. Il bretone riporta in Francia la Liegi, ad 11 anni dalla vittoria di Anquetil, e, inoltre, prende il testimone dalla mano di Merckx. Il ciclismo, da quel giorno, ha un nuovo sovrano: Bernard Hinault.
1980, neanche la bufera può nulla contro il Tasso
Nel 1980 Bernard Hinault non è più un giovane in ascesa, è il miglior corridore al mondo. Ha vinto la Vuelta a España, poi due Tour de France e a fine 1979 ha centrato anche l'obiettivo Giro di Lombardia. La Francia è ai suoi piedi, un campione così non lo vedevano dai tempi di Anquetil. Ma lui non si accontenta, ha in programma anche la conquista dell'Italia, infatti, per la prima volta in carriera, la corsa rosa lo vedrà ai nastri di partenza quell'anno. Prima del Giro, però, c'è la Liegi, la classica dove si era rivelato al mondo; sa di stare benissimo e vuole centrare il bis. Il 24 aprile 1980 a Liegi la neve scende impetuosa, la temperatura è costantemente sotto zero e un vento gelido tormenta i corridori a colpi di fendenti. E' una giornata da tregenda, quell'edizione della Doyenne diventerà famosa come Neige-Bastogne-Neige, letteralmente Neve-Bastogne-Neve. Partono in 174, arrivano in 21. Ma il campione sa esaltarsi anche nelle circostanze peggiori e Hinault è decisamente un campione, il più grande delle sua epoca. A 80 chilometri dal traguardo il Tasso attacca, squarcia la bufera, la intimorisce al punto che vento e neve sembrano aprirsi dinnanzi a lui come le acque del Mar Rosso davanti a Mosè. Hinault vola via, cavalca fiero la sua bici fino al traguardo, mentre la tormenta non fa altro che impreziosire la sua impresa. Vince la sua seconda Liegi con 9 minuti e 24 secondi di vantaggio sul secondo classificato Hennie Kuiper, un distacco incredibile.
1987, Argentin beffa Roche e Criqueilion
Benché la Liegi sia conosciuta come la classica degli italiani, per anni è rimasta un tabù per i corridori nostrani. Tra il 1892 e il 1984 le vittorie azzurre sono state solo due, infatti, la prima con Carmine Preziosi, figlio di un immigrato campano in Belgio che lavorò nelle miniere di Charleroi, nel 1966, e la seconda con Silvano Contini, nel 1982. Il trend, tuttavia, cambiò improvvisamente nel 1985 quando, come un vortice impetuoso, sulle Ardenne si abbatté Moreno Argentin, veneto di San Donà di Piave con una spiccata propensione per le gare vallonate. Argentin, veloce e fortissimo sulle côte, è stato uno dei più grandi di tutti i tempi nelle classiche delle Ardenne, al pari di Eddy Merckx e Alejandro Valverde.
Vinse la prima Doyenne nel 1985 e bissò l'anno successivo. Nel 1987 sembrava, tuttavia, destinato ad abdicare al trono. In quell'edizione della Doyenne l'irlandese Stephen Roche e il Belga Claude Criqueilion attaccano insieme da lontano e riescono ad avvantaggiarsi nei confronti del gruppo. I due arrivano all'ultimo chilometro, sembrano destinati a giocarsi la corsa tra loro. Ma, come spesso accade in questi casi, i battistrada rallentano ed iniziano a guardarsi. Così, in un baleno, un gruppetto di tre unità, comprendente Argentin, Yvon Madiot e Robert Millar si riavvicina improvvisamente. A 500 metri dall'arrivo i tre hanno ancora 50 metri da recuperare Criqueilion e Roche, così Argentin decide di provare il tutto per tutto per riprenderli e scatta. In un attimo il veneto si sbarazza di Madiot e Millar e riprende i due rivali in testa, dopodiché, senza battere ciglio, tira dritto e continua nella sua formidabile progressione. Argentin esce in testa dall'ultima curva, sprintando in modo a dir poco portentoso, e sul rettilineo finale il belga e l'irlandese non sono in grado nemmeno di affiancarlo. Argentin, con una volanta estasiante e beffarda allo stesso tempo, conquista, sorprendentemente, la sua terza Liegi consecutiva. Ne vincerà poi anche un'altra di Doyenne, nel 1991.
1998, il capolavoro di Michele Bartoli
Michele Bartoli è stato un autentico esteta del pedale: univa classe al gusto di vincere in modo mai banale. Conquistò il Fiandre nel '96 scrollandosi tutti di ruota sul teatro più bello, il Kapelmuur. Nel 1999 vinse la Freccia Vallone sotto una tormenta di neve dopo 80 km di fuga. Alla Liegi alzò le braccia al cielo due volte: la prima, nel 1997, sbarazzandosi da solo della coppia Once composta da Laurent Jalabert e Alex Zülle, i quali avevano provato, invano, a chiuderlo nella loro morsa. Un trionfo di spessore, ma solo l'antipasto di quanto farà l'anno seguente il toscano. La Liegi del 1998 è contraddistinta dalla lunghissima fuga del russo Evgeni Berzin, che la Doyenne l'aveva già vinta quattro anni prima. Mentre il dominatore del Giro '94 insiste nella sua azione solitaria, sulla Redoute la corsa si infiamma: Bartoli fa il forcing e un drappello di sette corridori evade dal resto del gruppo; al suo interno, insieme al toscano, ci sono tutti i più forti, Boogerd, Casagrande, Massi, Vandenbroucke, Dufaux e, ovviamente, Jalabert. Michele, che pedala con facilità disarmante, si limita a controllare giù dalla côte principe della Doyenne, poi, a 16 chilometri dall'arrivo, lancia il suo attacco. Parte con un rapporto incredibilmente lungo, che solo uno come lui è in grado di spingere su quelle stradine impervie che tirano all'insù. Semina immediatamente tutti i rivali, successivamente, sulla Côte de Sart Tilman, riprende uno stremato Berzin e lo stacca. Da lì in poi plana da solo verso il traguardo, aumentando il proprio vantaggio sugli inseguitori costantemente. Alla fine Bartoli vince la sua seconda Doyenne consecutiva con un minuto e 13 secondi di vantaggio su Jalabert, nuovamente secondo alle spalle del toscano.
1999, la perla di Frank Vandenbroucke
Frank Vandebroucke, eroe tragico se ce n'è stato uno nella storia recente del ciclismo; il suo talento era smisurato, probabilmente infinito. Frank, vallone di Mouscron, era capace d'essere competitivo in qualsiasi tipo di corsa in linea, dalla Liegi alla Roubaix, ed era in possesso di una delle sparate più belle e potenti che il modo delle due ruote abbia mai avuto l'onore di ammirare. Un carattere tuttavia molto fragile lo ha portato all'autodistruzione, sia a livello sportivo che personale. Frank è venuto a mancare nel 2009, a 35 anni, non si era ancora ritirato. Solo dieci anni prima il vallone viveva il periodo migliore della sua carriera, periodo impreziosito dal trionfo nella Liegi-Bastogne-Liegi del 1999. Una vittoria magnifica, di quelle che restano impresse nelle menti di chiunque abbia avuto l'onore di assistervi. Vandenbroucke sul Saint-Nicolas è l'unico, quel giorno, in grado di rintuzzare l'attacco di Michael Boogerd. L'olandese parte fortissimo sulla salita degli italiani, come un dardo scoccato da una balestra, ma Frank è lesto a non farselo sfuggire. Risponde e poi resta a qualche metro dal rivale, aspetta il momento propizio, come un lupo che attende l'attimo ideale per lanciarsi sulla sua preda. A poche centinaia di metri dallo scollinamento Vandebroucke mette le mani nella parte bassa del manubrio, si alza sui pedali e scatta. Per Boogerd non c'è nulla da fare, il vallone è troppo forte e se ne va, lo rivedrà a Liegi, dove arriva tutto solo con le braccia alzate.
2005, Vino e Voigt mettono a ferro e fuoco la Vallonia
Aleksandr Vinokourov e Jens Voigt, il primo kazako e il secondo tedesco nativo della Germania dell'Est, sono cresciuti ai tempi del regime sovietico, erano poco più che adolescenti quando il muro di Berlino venne abbattuto. I due non hanno paura di nulla, in corsa così come nella vita. Nelle loro carriere si sono contraddistinti entrambi per grinta, tenacia, combattività e un modo di correre anticonvenzionale, sempre all'attacco. Due così, insieme, sono un mix esplosivo capace di qualsiasi cosa, incluso mettere a soqquadro la Doyenne. È ciò che accade alla Liegi del 2005, quando i due attaccano a ben 52 km dal traguardo, fuoriuscendo da un gruppo composto da una trentina di corridori. Gli altri perdono l'attimo e commettono un errore fatale. Voigt e Vino sanno bene che per arrivare in fondo devono collaborare, e nessuno nega un cambio all'altro. Ai piedi della Côte di Ans hanno ancora 40 secondi di vantaggio sui rivali, è fatta. I due allora si osservano, si scrutano, Vino si mette a ruota di Voigt e poi lancia lo sprint, il tedesco da tutto, ma non ce la fa, la Liegi per la prima volta nella sua storia parla kazako.